a cura di Anna Maragno

«Allora è possibile scorgere [...]/[...] tutto intero palpitare / stipato di stelle il firmamento, che non cede il numero loro / a quello dei fiori [...]»1

Il cielo etrusco. Il cielo romano

Conclusa la nostra trattazione dell’astronomia nel mondo greco antico, ci dedichiamo ora alla visione del cielo elaborata dagli Etruschi e dai Romani. L’approccio di questi due popoli nei confronti della volta celeste fu, come vedremo, del tutto diverso da quello ellenico: meno speculativo ed astrattamente “scientifico”, più intriso di religione, di astrologia e di risvolti applicativi. Tuttavia, il fascino verso gli astri permaneva, seppur espresso in differenti modalità.  

 

Figura alata di un aruspice, disegno di Anna MaragnoFigura 1. Figura alata di un aruspice (probabilmente Calcante) intento ad analizzare il fegato di un animale per ricavarne auspici. Retro di uno specchio in bronzo fuso, inciso, di diametro 18,5 cm e di altezza 14,8 cm. L’oggetto, databile alla fine del V secolo a.C. e rinvenuto a Vulci (VT), è oggi conservato presso i Musei Vaticani, a Città del Vaticano.  

Gli Etruschi

Poco si conosce dello studio del cielo da parte del popolo etrusco (IX secolo a.C. - I secolo a.C.). Non è noto come fossero effettuate le osservazioni; tuttavia, alcune fonti romane parrebbero indicare, anche se implicitamente, che la loro astronomia ruotasse attorno al tempio. Quest’ultimo era un edificio in genere eretto secondo precisi allineamenti con i punti cardinali, probabilmente per portare sulla Terra le coordinate dell’intero cosmo e tentare così di analizzarlo ed interpretarlo. Gli studiosi concordano però nel supporre che altri motivi, ancora misteriosi, siano alla base di tali orientazioni. Normalmente, il tempio era posto in un luogo sopraelevato, con la vista aperta a tutti e quattro i punti cardinali; era poi compito del sacerdote (l’augure) indicare, tramite una croce tracciata sul terreno con un bastone senza nodi (il lituus), le direzioni – tra loro perpendicolari – Nord-Sud (il cardo) ed Est-Ovest (il decumano) alle quali la costruzione doveva essere allineata. Tale usanza si trasferì poi quale schema urbanistico per le città fondate dai Romani, così da suggellare l’armonia fra la terra e il cielo. La stessa suddivisione si ritrovava negli accampamenti militari e nella centuriazione (ossia nel metodo di suddivisione dei lotti da coltivare).   

fibula etrusca ad arco disegno di Anna Maragno

Figura 2. Particolare di una fibula etrusca ad arco configurato (630 a.C. - 625 a.C.) conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Nella parte superiore è raffigurata una sfinge alata con pettinatura hatorica, realizzata con lamine d’oro saldate tra di loro; nella parte inferiore è rappresentata, a pulviscolo, una processione di animali fantastici.

Pare quasi certo che gli Etruschi approfondissero l’indagine sul cielo per conoscere e predire gli avvenimenti umani, in quanto era loro convinzione che il macrocosmo e il microcosmo fossero intrinsecamente connessi tra loro. Ciò avveniva tramite precisi riti: la religione era dunque, presso gli Etruschi, inscindibile da ogni studio riferito alla volta celeste e si rendeva necessaria per comprendere e per assecondare la volontà degli dèi. La classe sacerdotale, che faceva da tramite tra il cielo e la terra, era dunque molto influente e rispettata. In epoca più tarda, vi si sarebbero rivolti gli stessi Romani (dopo aver conquistato l’Etruria) per poter ottenere interpretazioni dei messaggi divini. Questi sacerdoti tentavano di comprendere il volere degli dèi attraverso diverse pratiche divinatorie: l’auspicio (ossia lo studio del volo degli uccelli), l’arte fulgurale (l’osservazione dei fulmini), la libanomanzia (la lettura del fumo dell’incenso) e, soprattutto, l’aruspicina (l’analisi delle viscere di alcuni animali). Quest’ultima tecnica si fondava sulla definizione di uno “spazio sacro” (ossia del templum di cui abbiamo parlato), suddiviso – come detto – in cardo e decumano, che probabilmente rappresentava il cielo. Secondo l’interpretazione dello studioso Massimo Pallottino, il Nord della volta celeste corrispondeva alla pars postica, dimora degli dèi celesti ed inferi; il Sud alla pars antica, popolata dalle divinità terrestri. La zona ad Est (pars familiaris) corrispondeva a divinità benevole, quella ad Ovest (pars hostilis) era sede di quelle sfavorevoli. L’intersezione del cardo e del decumano suddivideva dunque il cielo in quattro quadranti, ciascuno dei quali era a sua volta ripartito in altri quattro, per un totale di 16 settori. A ciascuno di questi corrispondevano differenti divinità. Sono ben visibili tali aree nelle regioni marginali del Fegato di Piacenza, modello bronzeo di fegato di pecora che riporta numerose iscrizioni etrusche, risalente al II o al I secolo a.C. Il nome del dio del sole etrusco è inciso per due volte sulla superficie del fegato: una sul lato concavo (vi si legge infatti “Cath”, una variante grafica di “Cavtha”), l’altra sul lato convesso (su cui è riportata la parola “Usíls”, il secondo nome del dio). Lì accanto, ma in una diversa sezione, è indicato “Tivr”, ossia il dio della Luna (lo stesso termine indicava, in lingua etrusca, anche il mese). Oltre alle divinità associate ai 16 settori, la cosmogonia etrusca (ancora oggi per gran parte ignota) appare popolata altresì di 12 dèi legati ai segni dello Zodiaco e da altri 7 associati ai pianeti.
Sembra che il computo del tempo presso il popolo etrusco fosse basato (almeno nelle prime fasi) sulle fasi lunari, fissando con questo criterio i mesi e le settimane. Probabilmente, in uno stadio successivo, furono applicate semplificazioni ed aggiustamenti per accordarsi con l’osservazione del corso del Sole durante l’anno. 

Anfora a spirali , disegno di Anna Maragno

Figura 3Anfora a spirali in impasto bruno lucidato (altezza: 20 cm, diametro della bocca: 7.8 cm). Il manufatto appartiene alla Collezione Pesciotti, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma. Presso molte civiltà antiche, il motivo della doppia spirale si connetteva all’idea di evoluzione ed involuzione, all’equilibrio fra forze opposte, al divenire e al rinnovamento, così come alle fasi lunari e al tempo crescente e a quello calante nel corso di un anno. 

I Romani

Il popolo romano seppe assorbire l’intero patrimonio della conoscenza greca, sbarazzandosi però degli apparati teorici che presentavano maggiore astrattezza e complessità. Per quanto riguarda l’astronomia, in particolare, i dettagli matematici più avanzati furono accantonati a favore di un approccio più applicativo e discorsivo. 
Forte era la connessione tra religione, astronomia e potere. Non era raro che, in età imperiale, il princeps ponesse la sua data di nascita in corrispondenza di configurazioni astrali più o meno veritiere, o che fosse raffigurato in associazione al dio Sole (ad esempio, in statue o sulle monete). Era diffusa altresì l’usanza di rivolgersi alla divinazione di tipo astrologico prima di importanti delibere o per informarsi a proposito di nemici politici. 
L’indagine filosofica si separò dal pensiero matematico ma l’interesse verso lo studio del cielo permaneva. Tito Lucrezio Caro (I secolo a.C.), ad esempio, fu un convinto atomista: nel proprio De rerum natura spiega infatti come la Terra e i corpi celesti si siano creati a partire dall’unione degli atomi che si muovono incessantemente nello spazio vuoto. Lucio Anneo Seneca approfondisce la natura delle comete nel settimo libro dell’opera Naturales quaestiones. Gaio Plinio Secondo “il Vecchio” (23 d.C. - 79 d.C.), nella Naturalis Historia, riporta i principi di cosmologia e di astronomia sviluppati dalla scienza greca. Anche figure politiche quali Caio Giulio Cesare e Marco Tullio Cicerone si interessarono di astronomia. 
Siamo dunque di fronte ad una sorta di immobilismo che non produce innovazioni e che si trasmette nei secoli successivi, sino alla caduta dell’impero romano. Tendenzialmente, gli autori del mondo latino si limitano ad accettare e proporre il modello tolemaico, commentandolo ed inserendolo nelle loro opere enciclopediche. In epoca cristiana, la regressione si rese ancor più evidente: l’esempio più lampante e celebre è rappresentato dalla triste vicenda di Ipazia di Alessandria, alla quale dedichiamo il prossimo paragrafo. 
Come detto, dunque, le speculazioni teoriche lasciano il posto, a Roma, ad un criterio più funzionale finalizzato alla risoluzione di questioni pratiche, spesso di utilità pubblica. L’astronomia è applicata soprattutto per la misurazione del tempo e dello spazio, necessaria per strutturare un calendario in grado di regolare l’agricoltura, la vita economica e commerciale e le campagne miliari; è inoltre utile per l’agrimensura e per l’orientazione di città ed edifici. Per altri dettagli sulla misurazione del tempo, rimandiamo agli articoli del percorso Horas doceo. Storia della misurazione del tempo.
Il fascino che i Romani provavano verso la volta stellata è attestato da numerose testimonianze che attraversano tutto il corso della loro civiltà. Ne sono un esempio gli elementi decorativi di diverse abitazioni pompeiane raffiguranti stelle e corpi celesti, o poesie di autori latini che nominano pianeti e costellazioni. Anche molti affreschi, mosaici e statue si legano a questo tema, illustrando stelle o strumenti astronomici (ad esempio le sfere armillari). Si pensi, ad esempio, all’Atlante Farnese, scultura del II secolo d.C. che, con ogni probabilità, rappresenta una copia di un originale più antico di epoca ellenistica. Atlante regge sulle spalle il globo celeste, sul quale sono indicati l’equatore, l’eclittica, la fascia dello zodiaco, i due tropici, i circoli artico ed antartico e i due coluri (ossia i due principali cerchi orari della sfera celeste, uno passante per gli equinozi, l’altro, perpendicolare al primo, passante per i solstizi). Sono poi rappresentate, sulla superficie della sfera, oltre 40 delle 48 costellazioni conosciute nel mondo greco. 

Particolare dell’Atlante Farnese, wikimediacommons

Figura 4. Particolare dell’Atlante Farnese in cui sono ben visibili alcune delle costellazioni rappresentate sulla superficie della sfera celeste. L’intera statua, in marmo, è alta 1.85 m ed è oggi conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. 

Ipazia di Alessandria, la «celeste fanciulla […] degli astri da lei adeguati in bellezza»2

Ipazia (seconda metà del IV secolo d.C. - 415 d.C.) fu una studiosa di età tardo-alessandrina che si dedicò, in particolare, allo studio dell’astronomia, della matematica, della fisica e della filosofia. Il padre, il matematico ed astronomo Teone di Alessandria, la istruì personalmente, avviandola e seguendola negli studi, in special modo in ambito scientifico; più tardi si accostò alla filosofia, abbracciando il pensiero neoplatonico. Ipazia insegnò presso il Serapeo di Alessandria; divenne celebre per il suo acume, per la sua saggezza, per il suo desiderio di trasmettere conoscenza a chiunque le fosse accanto. Su quest’ultimo aspetto, il filosofo Damascio (seconda metà del V secolo d.C. - prima metà del VI secolo d.C.) scrive infatti che Ipazia era solita gettarsi addosso il mantello e uscire nel centro della città, spiegando pubblicamente e a chiunque volesse ascoltarla le opere dei grandi filosofi, di Platone, di Aristotele o di qualsiasi altro. Nessuna sua opera è giunta sino a noi; sappiamo però che collaborò con Teone e che scrisse di suo pugno opere di matematica (tra le quali un’edizione riveduta e corretta degli Elementi di Euclide) e un commento alla teoria tolemaica. I suoi «successi nella letteratura e nella scienza» (così scrive di lei Socrate Scolastico), le sue brillanti intuizioni e il suo metodo la resero popolare e stimata: molti accorrevano ad Alessandria per seguire le sue lezioni. In quel periodo, il potere imperiale aveva ordinato la demolizione dei templi ad Alessandria e, di conseguenza, aveva avuto inizio la persecuzione attuata dai seguaci del Cristianesimo nei confronti dei pagani. In tale contesto di intolleranza religiosa ebbe luogo la tragica fine di Ipazia, uccisa da fanatici cristiani che vedevano in lei, donna pagana, indipendente ed influente, una minaccia.



Note

1. Manilio, Il poema degli astri, V, 726-729, trad. di P. Boitani in Id., Il grande racconto delle stelle, Società editrice il Mulino, Bologna, 2012, p. 87.

2. C. Graziani (1832), Studi o discorsi istorici sopra la caduta dell’impero romano, la nascita del Cristianesimo e l’invasione dei barbari seguito da un’analisi ragionata della storia di Francia di F. A. de Chateaubriand, Prima versione, Tomo II, Simone Birindelli, Firenze, p. 248.


Fonti delle immagini

Figura 1. Disegno originale di Anna Maragno, non riprodurre senza autorizzazione.

Figura 2. Disegno originale di Anna Maragno, non riprodurre senza autorizzazione.

Figura 3. Disegno originale di Anna Maragno, non riprodurre senza autorizzazione.

Figura 4. Sailko, CC BY 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/3.0>, via Wikimedia Commons al link:
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Atlante_farnese,_II_sec.,_6374,_02.JPG



Bibliografia e consigli di lettura

Bersanelli, M., Il grande spettacolo del cielo. Otto visioni dell’universo dall’antichità ai nostri giorni, Sperling & Kupfer, Milano, 2018

Boitani, P., Il grande racconto delle stelle, Società editrice il Mulino, Bologna, 2012

Brooke-Hitching, E., L’Atlante del Cielo. Le mappe più belle, i miti e le meraviglie dell’universo, tr. it. a cura di V. Gorla, Mondadori, Milano, 2020 

Di Cesare, V., I cardini del cielo, in «L’Astronomia» 38 (1984), pp. 20-23

Dore, A., Marchesi, M., Minarini, L., Principi etruschi tra Mediterraneo ed Europa, Marsilio Editori, Venezia, 2000

Hack, M., Ferreri, W., Cossard, G., Il lungo racconto dell’origine. I grandi miti e le teorie con cui l’umanità ha spiegato l’Universo, Sperling & Kupfer, Milano, 2018

Leopardi, G., Storia dell’astronomia dalla sua origine fino all’anno MDCCCXIII, con uno scritto di A. Massarenti e un’appendice di L. Zampieri, BookTime, Milano, 2008

Magini, L., Astronomy and Calendar in Ancient Rome. The Eclipse Festivals, «L’Erma» di Bretschneider, Roma, 2001

Magini, L., Stars, Myths and Rituals in Etruscan Rome, Springer, Cham, Heidelberg et al., 2015

Pallottino, G., Civiltà artistica etrusco-italica, Sansoni, Firenze, 1963

Pallottino, G., Etruscologia, Hoepli, Milano, 1984

Pallottino, G., Genti e culture dell’Italia preromana, Jouvence, Roma, 1981

Pallottino, G., Gli Etruschi, Bompiani, Milano, 1998

Pallottino, G., L’origine degli Etruschi, Tumminelli, Roma, 1947

Pallottino, G., Origini e storia primitiva di Roma, Rusconi, Milano, 1993

Ronchey, S., Ipazia. La vera storia, RCS Libri, Milano, 2010

Strano, G., Astronomia a Roma, in U. Eco (a cura di), Storia della Civiltà Europea. L’antichità. 13. Roma. Scienze e tecniche, Musica, Gruppo Editoriale L’Espresso, Milano, 2017, pp. 102-123

Valerio, V., L’Atlante Farnese e la rappresentazione delle costellazioni, in E. Lo Sardo (a cura di), Eureka! Il genio degli antichi. Napoli, Museo Archeologico Nazionale, 11 luglio 2005 - 9 gennaio 2006, Electa, Napoli, 2005, pp. 233-239