a cura di Anna Maragno

«...si scorgono tutti gli astri e ne gioisce il pastore»

Il cielo greco (I). Età arcaica

Dopo aver riservato le ultime due tappe del nostro percorso alle concezioni cosmologiche dei popoli mesopotamici e di quello egizio, ci accostiamo ora alla civiltà greca. In questo mese avremo modo di constatare come già in età arcaica le spiegazioni sull’origine e sulla natura del cosmo, inizialmente imbevute di racconti mitologici, se ne siano presto affrancate. Ne danno prova i filosofi presocratici Talete, Anassimandro ed Anassimene che – per primi – si interrogarono razionalmente su diversi aspetti legati al cielo e all’astronomia. 

 disegno di Anna MaragnoFigura 1. Il Sole evidenzia i contorni della loggia delle Cariatidi sul lato meridionale dell’Eretteo, tempio ionico del V secolo a.C. situato presso l’Acropoli di Atene.

Una necessaria periodizzazione

I contributi che i Greci seppero dare allo studio del cielo costituiscono la più alta sintesi raggiunta dal mondo antico in materia di astronomia. Data la numerosità degli apporti e la loro raffinata complessità, per meglio descriverli, seppur brevemente, ci proponiamo di suddividerli temporalmente in tre fasi. Anche se con qualche adattamento dettato dalle necessità di esposizione, ci atterremo alla tradizionale periodizzazione che ripartisce la storia della Grecia antica in età arcaica (VIII secolo a.C. – VI secolo a.C.), età classica (V secolo a.C. – IV secolo a.C.) ed età ellenistica (IV secolo a.C. – I secolo a.C.).

Il cielo di Omero 

Sono i versi dei più antichi poeti greci, Omero ed Esiodo, le prime fonti che testimoniano l’interesse della civiltà greca arcaica nei confronti del cielo notturno. 

La più risalente descrizione della volta stellata rintracciabile nella letteratura occidentale si legge, infatti, nel libro VIII dell’Iliade di Omero (IX-VIII secolo a.C.). I fuochi accesi dai Troiani davanti alle mura della propria città sono tanto numerosi da essere suggestivamente paragonati alle stelle del cielo. Così Omero, Iliade, VIII, vv. 555-561, nella traduzione di Franco Ferrari: 

Come quando in cielo le stelle intorno alla luna

lucente si mostrano nitide se l’aria è senza vento

e si profilano tutti i dirupi e i culmini degli sproni e le gole

dopo che dal cielo si è spalancato l’etere immenso

e si scorgono tutti gli astri e ne gioisce il pastore,

tanti fra le navi e le correnti dello Xanto ardevano

i fuochi accesi dai Troiani davanti a Ilio.

E ancora, un altro passaggio per noi rilevante si rintraccia nel celeberrimo libro XVIII della stessa opera, precisamente nel luogo in cui Teti implora Efesto affinché forgi una nuova armatura per Achille. Efesto si mette al lavoro realizzando come prima cosa un magnifico scudo, sulla cui superficie è rappresentato l’intero universo. Secondo la descrizione fornita da Omero, lo scudo appare suddiviso in cinque cerchi concentrici. Nel primo, al centro, sono raffigurati la Terra, il mare, il cielo, il Sole, la Luna e le costellazioni; nei cerchi successivi, spostandosi verso l’esterno, sono riconoscibili due città, una in pace e una in guerra, seguite da scene di vita agreste e pastorale e da danze di giovani. A racchiudere l’intero “mondo” è, infine, sul bordo dello scudo, il grande fiume Oceano che circonda l’intera Terra. Leggiamo ora i passaggi più significativi (Omero, Iliade, XVIII, 478-489, 607-608) nella traduzione di Franco Ferrari: 

Forgiava dapprima uno scudo solido e grande

cesellandone tutta la superficie e aggiungendovi un bordo

triplice, scintillante tutt’intorno, e un balteo in argento.

Cinque erano gli strati dello scudo su cui Efesto

cesellava molte figure con arte provetta.

Il dio vi modellò la terra e il cielo e il mare

e il sole infaticabile e la luna piena e tutte

le costellazioni di cui si corona la volta celeste,

le Pleiadi e le Iadi e la forza possente di Orione

e l’Orsa a cui danno anche il nome di Carro

e che ruota attorno a un identico punto guardando 

Orione: essa sola non ha parte delle acque d’Oceano.

[…]

E vi poneva la grande forza del fiume Oceano

lungo il bordo estremo dello scudo ben fabbricato.

Si sarà notato che Omero menziona esplicitamente l’Orsa Maggiore, costellazione del cielo boreale, mettendone in risalto la caratteristica di essere circumpolare («essa sola non ha parte delle acque d’Oceano»: dunque, non scende sotto l’orizzonte). Tale costellazione rivestiva grande importanza perché nella Grecia antica era il riferimento necessario ad individuare il Polo nord celeste. Sappiamo che oggi, a causa della precessione degli equinozi, la stessa funzione è invece svolta dalla Stella Polare, nella costellazione dell’Orsa Minore. 

scudo di achille, public domain

Figura 2. Lo Scudo di Achille nell’interpretazione di Angelo Monticelli (1778-1837), databile al 1820 circa.

Anche nell’Odissea non mancano riferimenti alle stelle. Ad esempio, nel libro V, si narra di Ulisse che riprende il mare dopo aver trascorso sette anni nell’isola di Ogigia come ospite di Calipso. L’eroe fa rotta ad est, verso Itaca, e per orientarsi osserva stelle e costellazioni (Omero, Odissea, V, 478-489, 607-608, nella traduzione di Giuseppe Aurelio Privitera):

Egli dunque col timone guidava destramente,

seduto: né gli cadeva sulle palpebre il sonno 

guardando le Pleiadi, Boote che tardi tramonta,

e l’Orsa che chiamano anche con il nome di Carro,

che ruota in un punto e spia Orione:

è la sola esclusa dai lavacri di Oceano.

Gli aveva ingiunto Calipso, chiara fra le dee,

di far rotta avendola a manca.

È interessante notare come lo sguardo “tecnico” di Ulisse verso le stelle, guide essenziali per ritrovare la strada verso casa, diventi un τόπος letterario che riecheggia in molti luoghi della letteratura classica successiva. Ne è un eloquente esempio il seguente brano delle Argonautiche dell’alessandrino Apollonio Rodio (III, 744-747, nella traduzione di Alberto Borgogno):

Ben presto la notte portò il buio sopra la terra;

in mare i naviganti guardavano l’Orsa e le stelle

di Orione, mentre ormai il viaggiatore e il guardiano

bramavano il sonno.

Ma torniamo al cosmo descritto da Omero. Osserviamo che la Terra è intesa come un disco piatto cinto, come detto, dal fiume Oceano, mentre il cielo è concepito come una solida volta di ferro o di bronzo, attraverso la quale viaggiano gli astri, trasportati da carri. Nei poemi omerici, le stelle sorgono e tramontano nell’Oceano. 

Numerosi altri riferimenti ai corpi celesti punteggiano i poemi omerici, ma non è questo il luogo per darne conto compiutamente. 

Il cielo di Esiodo

Anche le opere di Esiodo (VIII-VII secolo a.C.) sono prodighe di notizie utili a comprendere la concezione del firmamento dei greci arcaici. 

Nella Teogonia, il poeta narra alcuni miti concernenti le origini del cosmo. Il poema si apre con un inno alle Muse in cui Esiodo chiede loro di rivelargli come «dapprima gli dèi e la terra nacquero / e i fiumi e il mare infinito di gonfiore furente / e gli astri splendenti e il cielo ampio di sopra» (Esiodo, Teogonia, vv. 108-110, nella traduzione di Graziano Arrighetti). Dunque, il poeta racconta che prima si generò il Caos, poi Gea (la Terra), il Tartaro e, per ultimo, Eros. Dal Caos ebbero origine Erebos e la Notte, dai quali nacquero l’Etere (il Cielo superiore) ed Hemera (il Giorno). Gaia creò Urano (il Cielo stellato) e, unendosi con quest’ultimo, diede vita a numerosi figli, tra cui al titano Oceano.

Ne Le opere e i giorni, Esiodo afferma che non solo i ritmi agricoli della terra, ma anche quelli dei venti e del mare, obbediscono tutti alle stelle. L’osservazione delle Pleiadi, ad esempio, era fondamentale per stabilire i tempi della mietitura e della semina (Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 383-387, nella traduzione di Graziano Arrighetti):

Quando le Pleiadi Atlantidi sorgono,

la mietitura incomincia; la semina al loro tramonto; 

esse infatti quaranta notti e quaranta giorni

stanno nascoste, poi, col volger dell’anno,

appaion dapprima quando è il momento di affilare gli arnesi.

Si citano anche le Iadi ed Orione (Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 614-616, nella traduzione di Graziano Arrighetti):

poi, dopo che

le Pleiadi e le Iadi e il forte Orione

son tramontati, allora di seminare ricorda

E quando le Pleiadi scomparivano all’orizzonte, alla fine della bella stagione nel cielo dei Greci (non così nel nostro, a causa della precessione degli equinozi), non era più tempo di mettersi in mare (Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 619-622, nella traduzione di Graziano Arrighetti): 

sappi che quando le Pleiadi, d’Orione la forza terribile

fuggendo, si gettano nel mare nebbioso,

allora infuriano i soffi di ogni specie di venti.

Allora non è più il tempo d’avere la nave sul fosco mare

Ora è giunto il momento di lasciare Omero ed Esiodo per affrontare i primi tentativi di ricerca più propriamente “scientifica” che ebbero ad oggetto la volta celeste.

Talete di Mileto, «la cui gloria altissima si leva nel cielo»

È a Talete di Mileto (624-623 a.C. – 548-545 a.C.) che dobbiamo, con ogni probabilità, la prima “analisi” del cielo sviluppata dalla civiltà greca. Le frammentarie notizie biografiche che lo riguardano restituiscono l’immagine di un sapiente sempre intento all’osservazione della volta celeste. Come riferisce Platone (Theaetetus, 174a) in un notissimo aneddoto la cui veridicità è esclusa dagli studiosi moderni, una volta, mentre scrutava il cielo, Talete non si accorse della presenza di un pozzo e vi cadde dentro, suscitando l’ilarità di una giovane serva trace. Al contrario, un episodio raccontato da Aristotele (Politica, 1,1259a) esalta Talete come un uomo capace di sfruttare le sue conoscenze anche nella vita quotidiana. Pare, infatti, che alcuni lo criticassero per la sua attività di filosofo, sostenendo che questa non poteva essere di alcun aiuto ad un uomo povero. Per provare il contrario, Talete, dopo aver eseguito alcuni calcoli astronomici, fu in grado di prevedere una generosa raccolta di olive. Così, nel pieno dell’inverno, acquistò tutti i frantoi di Mileto e di Chio a basso prezzo e, quando si avvicinò il periodo della raccolta, li rivendette a cifre molto più elevate, traendone grande profitto. Talete intese così dimostrare come non fosse difficile per i filosofi accumulare ricchezze ma come non fosse questa la loro preoccupazione. 

Aneddoti a parte, è attestato l’interesse di Talete, annoverato dalla tradizione successiva tra i Sette Savi, verso la matematica e lo studio del cielo. Erodoto ne parla a proposito di un’eclissi totale di Sole, fenomeno all’epoca tanto impressionante da indurre Medi e Lidi ad interrompere una battaglia in corso fra di loro (Historiae, 1,74,1-2). Ebbene, Erodoto spiega che Talete seppe prevedere tale evento astronomico: si tratta forse dell’eclissi totale di Sole del 28 maggio 585 a.C., anche se gli studiosi non sono concordi sul punto. Il saggio di Mileto era convinto che l’ἀρχή, ossia il principio primo, la sostanza primordiale che è causa ed origine di tutte le cose, sia da identificarsi con l’acqua. 

Si riporta che Talete giunse al termine della vita mentre assisteva ad una gara atletica, al tempo della 58° olimpiade (dunque, tra il 548 e il 545 a.C.). Queste le parole di Diogene Laerzio (III secolo a.C.) nell’opera De clarorum philosophorum vitis (1,1,39), tradotta da Marcello Gigante:

Il saggio Talete rapisti dallo stadio, o Elio Zeus, mentre ad un ginnico agone assisteva. Ti lodo per averlo condotto vicino; ché il vecchio ormai più non poteva vedere dalla terra gli astri. 

Nel medesimo passo, Diogene Laerzio riferisce che il suo epitaffio fosse il seguente:

Ecco, questo piccolo tumulo che vedi è del saggissimo Talete, la cui gloria altissima si leva nel cielo.

Canova, public domain

Figura 3. Antonio Canova (1757-1822), Urania, la musa dell’astronomia, rivela a Talete i segreti dei cieli, tempera, 1798-1799, Museo Gypsotheca Antonio Canova, Possagno.

Anassimandro e Anassimene

Allievo di Talete, presso la Scuola di Mileto, fu Anassimandro (610 a.C. - 547 a.C.). Si vuole sia stato l’inventore dello gnomone, come sappiamo strumento in grado non solo di segnalare l’ora sulle meridiane, ma anche di indicare i solstizi e gli equinozi (ne abbiamo parlato nel percorso Horas doceo. Storia della misurazione del tempo). Gli studiosi discutono se al filosofo fosse nota, o meno, l’inclinazione dello zodiaco rispetto all’eclittica. 

Come è noto, Anassimandro identifica l’ἀρχή con l’ἄπειρον, ossia un principio infinito o indeterminato, dal quale tutte le cose sono generate e al quale ritornano, una volta terminato il ciclo stabilito da una legge necessaria. Ogni cosa, dunque, deriva da tale sostanza primordiale attraverso un processo denominato “separazione”. Infatti, grazie al fatto che l’ἄπειρον è in continuo movimento, da questo si separano i contrari (caldo e freddo, secco e umido, e così via). In tal modo hanno origine infiniti mondi che si succedono in un ciclo eterno.  

Secondo Anassimandro, la Terra è un cilindro di altezza pari ad 1/3 del diametro e rimane ferma al centro del cosmo, “galleggiando” senza essere sostenuta, in quanto si trova ad uguale distanza dagli estremi e, quindi, non è spinta a muoversi da alcuno di questi. Il concetto di una Terra “sospesa” nello spazio rappresenterebbe, secondo molti studiosi, la prima grande intuizione cosmologica della storia del pensiero scientifico. Anassimandro era altresì convinto che gli astri siano “fori” attraverso i quali è possibile intravedere il fuoco cosmico che si trova al di là della volta stellata. Inoltre i corpi celesti, secondo il filosofo, si trovano a distanze differenti rispetto alla Terra: Anassimandro teorizza, per primo, un universo a tre dimensioni. 

Anassimene (585-584 a.C. – 528-524 a.C.), ultimo rappresentante della Scuola di Mileto e forse allievo di Anassimandro, riconosce nell’aria l’ἀρχή, vale a dire il principio primo, dal quale hanno origine e si dissolvono tutte le cose attraverso processi di condensazione e rarefazione. Il filosofo sosteneva, inoltre, che i corpi celesti abbiano una consistenza “terrosa”, ossia siano pesanti. Si tratta di una sorprendente intuizione che ebbe, com’è noto, importanti sviluppi nella storia dell’astronomia. Se, nella visione cosmica di Omero, avevamo parlato di un cielo di ferro o di bronzo, la volta celeste di Anassimene è composta da materia cristallina. In questo cielo simile a ghiaccio, le stelle sono conficcate come chiodi e ruotano attorno ad una Terra di forma piatta. 

 

Testi e disegni originali di Anna Maragno. Non riprodurre senza autorizzazione.



Fonti delle immagini

Figura 1. Disegno originale di Anna Maragno, non riprodurre senza autorizzazione.

Figura 2. Angelo Monticelli, immagine di pubblico dominio, al link:
https://it.wikipedia.org/wiki/File:Angelo_monticelli_shield-of-achilles.jpg

Figura 3. Canova, immagine di pubblico dominio, al link:
https://commons.m.wikimedia.org/wiki/File:Canova_-_Urania,_the_Muse_of_Astronomy_Reveals_to_Thales_the_Secrets_of_the_Skies,_1798-1799.jpg



Bibliografia e consigli di lettura

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Borgogno, A. (a cura di), Apollonio Rodio. Argonautiche, Mondadori, Milano, 2019

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Couprie, D. L., Heaven and Earth in Ancient Greek Cosmology. From Thales to Heraclides Ponticus, Springer, New York, Dordrecht et al., 2011

Ferrari, F. (a cura di), Omero. Iliade, Mondadori, Milano, 2018

Gigante M. (a cura di), Diogene Laerzio. Vite dei filosofi, Laterza, Bari, 1962

Hack, M., Ferreri, W., Cossard, G., Il lungo racconto dell’origine. I grandi miti e le teorie con cui l’umanità ha spiegato l’Universo, Sperling & Kupfer, Milano, 2018

Laurenti, R., Introduzione a Talete Anassimandro Anassimene, Roma, Bari, 1971

Leopardi, G., Storia dell’astronomia dalla sua origine fino all’anno MDCCCXIII, con uno scritto di A. Massarenti e un’appendice di L. Zampieri, BookTime, Milano, 2008

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