a cura di Anna Maragno

«Dacché la terra ebbe degli uomini, il cielo ebbe degli ammiratori»1

Il cielo paleolitico

Nella prima tappa del nostro viaggio, dopo alcune considerazioni introduttive circa il rapporto degli uomini delle origini con il cielo, approfondiremo alcuni tra i più importanti reperti che, secondo gli studiosi, potrebbero consistere in calendari lunari e in mappe stellari di epoca paleolitica.

Sala dei tori grotte di lascaux, disegno di Anna Maragno

Figura 1. Particolare della Sala dei Tori presso le grotte di Lascaux (Francia). Sopra la spalla dell’uro in primo piano è individuabile l’ammasso delle Pleiadi. Secondo alcuni studiosi, la testa dell’animale potrebbe “nascondere” la costellazione del Toro, con le corna disposte come le Iadi e l’occhio dell’uro corrispondente ad Aldebaran, che rappresenta l’“occhio” del Toro nella costellazione. I punti attorno indicherebbero le altre stelle della costellazione. Si è ipotizzato che i quattro punti allineati, sulla schiena dell’uro a sinistra, riproducano una parte della costellazione di Orione.

Occhi al cielo

Non sappiamo quando l’uomo abbia ammirato, per la prima volta, il cielo stellato. Secondo Ovidio (43 a.C. - 17 d.C.), sarebbe stato lo stesso Opifex rerum, nell’atto stesso della creazione dell’uomo, a “sollevargli il viso”, così che posasse gli occhi sulla volta celeste e fissasse, eretto, il firmamento: os homini sublime dedit caelumque videre / iussit et erectos ad sidera tollere vultus (Metamorphoses, 1, 85-86). Ma possiamo supporre che l’uomo, sin dalla sua comparsa sulla Terra, abbia spesso rivolto lo sguardo a quel cielo che Ovidio vuole “effervescente di stelle” (Metamorphoses, 1, 71). Quella visione certamente non mancava di ispirare perenne ammirazione, forse timore e, soprattutto,  meraviglia. Aristotele (384-383 a.C. - 322 a.C.) era convinto che fosse proprio quest’ultima a generare nell’uomo il desiderio di conoscenza. Il “meravigliarsi”, dunque, deve aver acceso una profonda curiosità nei primitivi al cospetto di questa entità sconfinata e misteriosa, spingendoli ad osservarla e a porsi interrogativi.

Caelum et Terra

Il cielo si presentava all’uomo come una realtà ordinata e affidabile: il Sole riappariva ogni giorno, la Luna attraversava diverse fasi fino a completare un ciclo, le stelle ritornavano in determinate posizioni con regolarità. I movimenti degli oggetti celesti di cui l’uomo era testimone, che dovevano apparirgli quali “danze” silenziose e precise, lo avevano indotto ad attribuire al cielo i caratteri dell’imperturbabilità, della perfezione, dell’inaccessibilità e della leggerezza. La terra, al contrario, luogo incerto e in perpetuo cambiamento, era percepita come solida, statica, pesante, mutevole. “Terra” e “Cielo” si presentavano come mondi separati e caratterizzati da due nature intrinsecamente diverse. Il cielo acquisiva, in una simile visione, una posizione di preminenza rispetto alla terra e diveniva, così, inevitabilmente, la dimora della divinità. Tale convinzione, suggerita dall’osservazione e giustificata da ciò che oggi chiameremmo il “senso comune”, conobbe una longevità sorprendente nella storia del pensiero occidentale. Questa idea, che già in origine dovette essere universalmente condivisa, trovò più tardi consacrazione negli studi filosofici. Si radicò in profondità (complice l’aristotelismo, che imperò per quasi due millenni); soltanto Isaac Newton riuscì ad estirparla del tutto, alle soglie del XVIII secolo.  

Torniamo, dunque, all’era preistorica. L’osservazione del cielo, a quei tempi, non si limitava a soddisfare esigenze di mera “contemplazione” estetica o spirituale (quasi sfumata in un “Sublime” ante litteram), ma rivestiva importanza fondamentale per la vita quotidiana. Il ritorno del Sole nel cielo ogni giorno, ad esempio, era un evento percepito come fondamentale per la sopravvivenza da parte dell’uomo nomade primitivo, ed era dunque salutato con gioia e con riconoscenza (ben si comprende, quindi, la presenza di divinità solari nei culti arcaici). Quando, fra i 10.000 e gli 8.000 anni fa, l’uomo abbandonò il nomadismo, basato sulla caccia e sulla raccolta, a favore di un’agricoltura stanziale, anche il suo rapporto con il cielo mutò. Le osservazioni divennero, di necessità, più precise: il ciclo delle stagioni, infatti, dettava i tempi della coltivazione della terra. All’uomo ormai sedentario diveniva inoltre evidente come il Sole sorgesse e tramontasse in punti diversi dell’orizzonte nel corso dell’anno, per poi ritornare ciclicamente nella stessa posizione.

La regolarità temporale nei movimenti degli oggetti celesti condusse gli uomini preistorici a basare su tali moti le prime misurazioni del tempo (per questi profili, rimandiamo al percorso dell’anno 2021, dal titolo «Horas doceo. Storia della misurazione del tempo»).

Qualche (necessario) riferimento temporale

Come si può procedere per comprendere quali spiegazioni riguardanti il cielo siano state sviluppate in età preistorica, ossia, per definizione, in quel periodo della storia umana in cui la scrittura era ancora sconosciuta? Ebbene, in mancanza di fonti documentarie, non resta che affidarsi alle uniche testimonianze in nostro possesso di quella lontana epoca: i reperti e i siti archeologici. Precisiamo che, per quanto ci riguarda, seguiremo la ben nota e condivisa periodizzazione storiografica che suddivide la Preistoria in Paleolitico (2,5 milioni di anni fa – 10.000 anni fa), Mesolitico (10.000 anni fa – 8.000 anni fa), Neolitico (8.000 anni fa – 3.500 anni fa). Nel periodo finale del Neolitico l’uomo iniziò a lavorare il rame: ebbe così avvio l’Età dei metalli, entro i cui confini avviene il passaggio dalla Preistoria alla Storia.

Le prime tappe del nostro percorso saranno dedicate all’approfondimento dei più remoti tra i cieli antichi. È questo il campo proprio della disciplina denominata archeoastronomia, ossia della scienza che si occupa di studiare le conoscenze astronomiche dei popoli preistorici e protostorici e, più in generale, il loro rapporto con il cielo.

Negli ultimi decenni, in particolare in ambito europeo, importanti scoperte archeologiche hanno permesso di acquisire nuove informazioni concernenti le civiltà del Neolitico e della prima Età dei metalli. Lo studio di numerosi reperti ha dimostrato che il sapere matematico ed astronomico allora raggiunto era ben più raffinato di quanto si fosse ipotizzato.

Calendari lunari paleolitici

Una delle testimonianze più risalenti è costituita da un “calendario lunare” proveniente dal Paleolitico Superiore. Si tratta dell’osso di Abri Blanchard, datato 33.000 anni fa, scoperto agli inizi del secolo scorso presso la località omonima, nella Dordogna (Francia). Il frammento osseo apparteneva all’ala di un’aquila e reca incisioni riconducibili, secondo l’archeologo Alexander Marshack, ad un tentativo di rappresentare i cicli lunari. Gli intagli, infatti, sono caratterizzati da forme che ricordano le diverse fasi, crescenti e calanti, della Luna.

osso di Abri Blanchard, disegno di Anna Maragno

Figura 2. In alto, l’osso di Abri Blanchard; in basso, un ingrandimento delle incisioni sul lato destro del reperto. 

Più problematica è l’identificazione delle incisioni sull’osso di Ishango, rinvenuto nel 1960 presso il Lago Edoardo, al confine tra Uganda e Congo. Il reperto, un osso di babbuino di circa 21.000 anni fa, presenta una scaglia di quarzo fissata ad un’estremità e una serie di intagli distribuiti in tre colonne. Quanto al significato delle incisioni, gli studiosi hanno avanzato diverse interpretazioni. Secondo Marshack, la disposizione delle incisioni in determinati raggruppamenti farebbe supporre che possa trattarsi di un “registro” in cui erano raccolte osservazioni di fasi lunari. Un ulteriore elemento a favore di questa tesi è costituito dall’abitudine, propria di alcune tribù indigene della zona e attestata fino a tempi piuttosto recenti, di utilizzare ossa come supporto materiale per calendari lunari. Altri esperti hanno interpretato diversamente i segni sul reperto, ipotizzando che possa trattarsi di un primo tentativo di elaborazione di un sistema numerico. 

Mappe stellari dell’ultima era glaciale

Altre testimonianze del cielo paleolitico si ritrovano nelle pitture rupestri all’interno delle grotte di Lascaux, situate nella Francia sud-occidentale, e di quelle di El Castillo, nel nord della Spagna. Queste caverne non rappresentano soltanto siti di immenso valore scientifico ed archeologico, ma costituiscono una prova dell’eccezionale qualità artistica dei gruppi umani paleolitici, tanto elevata da destare stupore e profonda emozione anche nei moderni visitatori (tra questi, Pablo Picasso, estasiato, pare abbia esclamato: «Non abbiamo inventato nulla!»).

Le grotte di Lascaux, ribattezzate da molti «la Cappella Sistina della Preistoria», furono scoperte nel 1940, in modo fortuito, da quattro ragazzi che percorrevano le colline della Dordogna a caccia di tesori. Seguendo il cane di uno dei quattro, che era caduto in una buca profonda, i giovani esploratori trovarono l’entrata della caverna. Alla luce di una lampada a petrolio, i loro occhi si posarono su pitture rimaste nell’oscurità per 17.000 anni, raffiguranti cortei di animali che, nelle parole dei ragazzi, «erano più grandi del normale e sembravano muoversi».

Nei segni che rappresentano più di 6.000 figure di animali (equini, cervi, bovini, bisonti, felini, uccelli, orsi e rinoceronti), di persone e simboli astratti, sembrano celarsi vere e proprie “mappe stellari” paleolitiche. Lo studioso Michael Rappenglük ha infatti ritenuto di poter riconoscere, nel disegno di un toro, di un uccello e di un uomo-uccello, la rappresentazione del Triangolo estivo, costellazione formata dalle stelle Vega, Deneb e Altair, gli astri più splendenti delle notti estive nell’emisfero boreale. Nella Sala dei Tori, invece, sopra la spalla di un uro è distinguibile, secondo Rappenglük, l’ammasso delle Pleiadi; le corna dell’animale seguirebbero la disposizione delle Iadi, nella costellazione del Toro; l’occhio dell’uro corrisponderebbe alla stella Aldebaran, coincidente con l’“occhio” del Toro nella medesima costellazione. Infine, i quattro punti sulla schiena dell’uro sulla sinistra potrebbero, forse, riprodurre parte della costellazione di Orione (Figura 1).

In una diversa zona delle grotte, infine, si rintraccerebbero due calendari lunari. Ai piedi di un cavallo selvaggio, infatti, si nota una sequenza di 29 punti scuri e allineati, probabilmente indicanti i giorni di un mese lunare. In una vicina parete, si trova un’altra sequenza consistente in una serie di 13 punti e, a seguire, un quadrato vuoto. In questo caso, i 13 punti potrebbero riferirsi alla metà di un ciclo lunare, mentre il quadrato vuoto potrebbe simboleggiare il quattordicesimo giorno, corrispondente al novilunio, quando l’emisfero visibile della Luna è totalmente in ombra (Figura 3).

Le grotte di Lascaux furono aperte al pubblico nel 1948: tuttavia, nell’arco di soli sette anni, l’aumento dell’anidride carbonica nell’ambiente interno, le alterazioni nella percentuale di umidità e nella temperatura delle sale e il conseguente avvento di licheni, muffe e funghi iniziarono ad arrecare danni alle pitture. Al fine di preservare l’integrità delle pitture, nel 1963 si decise di chiudere le grotte alle visite. Vent’anni dopo fu inaugurata Lascaux II, una prima e parziale replica delle pitture; nel 2012 prese avvio la mostra itinerante Lascaux III costituita da cinque riproduzioni e accolta, nel corso degli anni, da numerosi musei in diverse nazioni del mondo, per giungere a Lascaux IV, un museo che ospita una copia completa di tutte le aree dipinte delle grotte, aperto al pubblico dal 2016.

Grotte di Lascaux, Codex, attribution: CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

Figura 3. Grotte di Lascaux. I 13 punti, seguiti da un quadrato vuoto, potrebbero corrispondere alla metà di un ciclo lunare.

Lascaux non è un caso isolato. In questa sede ci limitiamo a citare la grotta di El Castillo,  rinvenuta nel 1903 dall’archeologo Hermilio Alcalde del Río. All’interno, le pareti sono ricoperte di pitture e di incisioni rupestri di epoche differenti. Le più antiche sono databili al Paleolitico Superiore (circa 40.000 anni fa) e comprendono figure di animali e di uomini, accanto a rappresentazioni astratte. Una di queste pitture, più recente, risalente a circa 14.000 o 15.000 anni fa (di poco posteriore, quindi, alle raffigurazioni parietali di Lascaux) e situata al limite destro del cosiddetto «Panel de las Manos», è costituita da una serie di sette punti, disposti a semicerchio con la concavità rivolta verso l’alto. Benché non tutti gli studiosi concordino, Rappenglük ha sostenuto la suggestiva ipotesi che questa pittura raffiguri la costellazione della Corona Boreale, ben visibile nel cielo dell’emisfero boreale in primavera e in estate.

Seppur con tutte le precauzioni che gli archeoastronomi devono necessariamente adottare per evitare di trarre conclusioni affrettate, pare ormai affermata l’idea che le pitture delle grotte di Lascaux e di El Castillo possano rivelare planisferi celesti del Paleolitico Superiore, databili alla fase conclusiva dell’ultima era glaciale.

Testi e disegni originali di Anna Maragno. Non riprodurre senza autorizzazione.



Note

1. G. Leopardi, Storia dell’astronomia dalla sua origine fino all’anno MDCCCXIII, con uno scritto di A. Massarenti e un’appendice di L. Zampieri, BookTime, Milano, 2008, p. 367. La prima edizione dell’opera è leggibile in G. Cugnoni (a cura di), Opere inedite di Giacomo Leopardi, Max Niemeyer Editore, Halle, 1878-1880.

Fonti delle immagini

Figura 1: disegno originale di Anna Maragno, non riprodurre senza autorizzazione.

Figura 2: disegno originale di Anna Maragno, non riprodurre senza autorizzazione.

Figura 3: Codex, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0, via Wikimedia Commons al link https://commons.wikimedia.org/wiki/File:%C3%89lan_aux_bois_2.jpg



Bibliografia e consigli di lettura

Bahn, P. G. (edited by), An Enquiring Mind. Studies in Honor of Alexander Marshack, Oxbow Books, Oxford, Oakville, 2009

Bersanelli, M., Il grande spettacolo del cielo. Otto visioni dell’universo dall’antichità ai nostri giorni, Sperling & Kupfer, Milano, 2018

Brooke-Hitching, E., L’Atlante del Cielo. Le mappe più belle, i miti e le meraviglie dell’universo, tr. it. a cura di V. Gorla, Mondadori, Milano, 2020

Cossard, G., Cieli perduti. Archeoastronomia: le stelle degli antichi, Utet, Torino, 2018

Hack, M., Domenici, V., Notte di stelle. Le costellazioni fra scienza e mito: le più belle storie scritte nel cielo, Sperling & Kupfer, Milano, 2018

Marschack, A., The Roots of Civilization. The Cognitive Beginnings of Man’s First Art, Symbol and Notation, Moyer Bell, Mt. Kisco, 1991

Proverbio, E., Archeoastronomia: alla ricerca delle radici dell’astronomia preistorica, Teti, Milano, 1989

Rappenglück, M. A., Ice Age People Find their Ways by the Stars: A Rock Picture in the Cueva de El Castillo (Spain) May Represent the Circumpolar Constellation of the Northern Crown (CrB), in «Migration & Diffusion. An international journal» 1, fasc. 2 (2000), pp. 15-28

Rappenglück, M. A., The Pleiades in the “Salle des Taureaux”, grotte de Lascaux. Does a rock picture in the cave of Lascaux show the open star cluster of the Pleiades at the Magdalénien era (ca 15.300 BC)?, in C. Jaschek, F. Atrio Barandela (a cura di), Actas del IV Congreso de la SEAC “Astronomia en la Cultura”, Universidad de Salamanca, Salamanca, 1997, pp. 217-225