a cura di Anna Maragno

«...aperti sono i portali del cielo spazioso»

Il cielo mesopotamico

Abbiamo scrutato i cieli della Preistoria e dell’Età del bronzo. È tempo, ormai, di volgere lo sguardo alle civiltà mesopotamiche, di cui possediamo le prime testimonianze scritte in materia di astronomia. La volta stellata esercitò sui popoli della Mesopotamia un notevole fascino. Essi, tuttavia, non si limitarono ad una mera contemplazione del cielo, ma furono in grado di tradurre il loro interesse in indagini scientifiche condotte attraverso calcoli matematici e accurate osservazioni. Ne danno prova sia testi mitologico-letterari sia tecnico-specialistici, quali registri e almanacchi astronomici. Grande è il debito di noi moderni nei confronti delle conoscenze acquisite dall’astronomia mesopotamica.

 disegno di Anna MaragnoFigura 1. Un episodio tratto dalla cosmogonia mesopotamica: il dio Marduk sconfigge la creatura primordiale Tiamat. Particolare di un bassorilievo parietale, databile all’865-860 a.C., situato presso una delle entrate del tempio di Ninurta, a Nimrud (nell’odierno Iraq). Rinvenuto nel 1851 da Austen Henry Layard, è ora esposto al British Museum (Regno Unito).

  

 

Una (doverosa) premessa storica

Nel presente articolo faremo riferimento a diversi popoli che abitarono la regione mesopotamica in età antica, prima dell’avvento di Alessandro Magno: ai nostri fini particolare rilevanza assumono i Sumeri, gli Assiri, i Babilonesi. Per meglio inquadrare storicamente lo sviluppo di queste civiltà e, di pari passo, i loro progressi nello studio del cielo, è opportuno premettere alcuni utili (benché largamente conosciuti) dati cronologici.

Verso il 3.500 a.C., i Sumeri giunsero in Mesopotamia, dove fondarono fiorenti città-stato e svilupparono la scrittura. Successivamente, le città-stato furono unite nel Primo impero sumerico (2.350 a.C.). Quest’ultimo fu presto spodestato dagli Accadi, che fondarono un impero molto più vasto del precedente. Il regime fu travolto dalle incursioni dei Gutei nel 2.150 a.C. Essi prevalsero nella regione per circa un secolo, ma i Sumeri riuscirono a rovesciarne il dominio, riprendendo le redini del potere e dando vita al Secondo impero sumerico (2.050 a.C. – 1.950 a.C.), abbattuto nel 1.950 a.C. dagli Amorrei che si insediarono nell’area, organizzandosi in diverse città-stato. Nel XVIII secolo a.C., il re di Babilonia Hammurabi le sottomise e unificò la Mesopotamia: nasceva così il Primo impero babilonese. Un secolo dopo, gli Ittiti si imposero nella regione, causando il crollo dell’impero. Gli Ittiti mantennero il potere sino al XII secolo (con crisi ed interruzioni dovute agli scontri con i Cassiti e, in seguito, con i Popoli del Mare). Infine, nel 1.100 a.C., la Mesopotamia passò sotto la dominazione assira. Tra i più celebri re degli Assiri, non può essere taciuto Assurbanipal (il cui regno si colloca tra il 669 e il 626 a.C.). Egli ebbe il merito di ordinare la costruzione, a Ninive, di una grande biblioteca reale, custode di migliaia di tavolette con testi in caratteri cuneiformi, di cui citeremo alcuni esempi. L’impero assiro fu rovesciato dai Babilonesi: con la caduta di Ninive (612 a.C.), essi riconquistarono il potere. Aveva inizio il Secondo impero babilonese, che conobbe il suo massimo splendore con re Nabucodonosor II (morto nel 562 a.C.). Nel 539 a.C., l’impero crollò sotto i colpi dei Persiani di Ciro il Grande. La Mesopotamia fu assoggettata, dunque, all’impero persiano, che perdurò sino al 332 a.C., fino alla sconfitta di Gaugamela ad opera di Alessandro Magno.

Nonostante l’avvicendarsi di popoli diversi, la civiltà mesopotamica può definirsi, sostanzialmente, “unica” e in sé coerente, in quanto i Babilonesi ereditarono tradizioni culturali e strutture civili già in uso presso Sumeri e Accadi. I sovrani mesopotamici non erano considerati divinità, ma intermediari tra il popolo e gli dèi. I sacerdoti della loro religione (politeista) godevano di speciale rispetto, in quanto leggevano nelle stelle la volontà degli dèi e i loro messaggi agli uomini. I popoli mesopotamici seppero brillare nel campo della matematica e dell’astronomia. Prima di descrivere i caratteri fondamentali dei loro contributi (che non si deve esitare a definire sorprendenti) in queste discipline, è necessario accennare alla visione mesopotamica dell’universo, deducibile dai racconti della creazione giunti sino a noi. 

Enûma Eliš. Quando il Cielo non aveva ancora nome

La civiltà sumera aveva ideato una parola per indicare l’universo: an-ki, termine composto che significa letteralmente “cielo-terra”. La Terra era concepita come un disco piatto sormontato da uno spazio vuoto, racchiuso in una volta. Tra Terra e Cielo si credeva aleggiasse una sostanza detta lil, traducibile come “aria” (o “vento”, o “spirito”). Secondo i Sumeri, il Sole, la Luna, le stelle e i pianeti erano composti da lil, a cui si aggiungeva una loro qualità caratteristica: la luminosità. L’an-ki, fisso ed immobile, era completamente circondato da un mare senza confini. 

I Sumeri elaborarono, nella loro cosmogonia, descrizioni sull’origine dell’universo. Gli studiosi sono soliti suddividere tali racconti in due tradizioni, rappresentate dalle scuole teologiche di Nippur e di Eridu. Nella tradizione della scuola di Nippur, la più antica, si narra che, prima della creazione di Cielo e Terra, sussistesse un mondo “embrionale”, denominato uru-ul-la (“città antica”), abitato dai Numina, ossia coppie di divinità maschili e femminili. Dai Numina furono creati An (il Cielo), e Ki (la Terra); dall’unione di questi ultimi, fu generato il dio Enlil (personificazione dell’aria e dei venti). Da An e Nammu (dea primordiale dell’acqua fluttuante), nacque Enki, dio dell’acqua dolce, della conoscenza e della creazione. Invece, secondo i teologi della scuola di Eridu, più tarda, erano due i principi vitali dell’universo: Apsū (l’acqua dolce) e Tiamat (l’acqua del mare). Dal loro incontro ebbero origine, dopo l’entità Mummu, i primi dèi: Laḫmu e la sorella Laḫamu, dai quali nacquero Anšar (personificazione del Cielo) e Kišar (della Terra). Questa tradizione è raccolta nell’opera Enûma Eliš (letteralmente, “Quando Lassù”), in lingua accadica. Il poema si apre con i seguenti versi (I, 1-12), che proponiamo nella traduzione di Jean Bottéro e Samuel Noah Kramer1:

Quando Lassù
Il cielo non aveva ancora nome,
E Quaggiù la terra ferma
Non era ancora chiamata con un nome,
Soli, Apsû-il-primo,
Loro progenitore,
E Madre (?) – Tiamat,
Genitrice per tutti loro,
Mescolavano insieme
Le loro acque:
Né banchi di canne vi erano ancora raggruppati
Né canneti vi erano distinguibili.
E mentre degli dèi
Nessuno era ancora apparso,
Essi non erano né chiamati per nome
Né definiti da un destino,
In (Apsû-Tiamat) alcuni dèi
Furono creati:
Lahmu e Lahamu apparvero 
E furono chiamati per nome.
Prima che fossero divenuti
Grandi e forti,
Furono creati Anšar e Kišar,
Che erano loro superiori.

Sono poi generate altre coppie di divinità. I nuovi creati sono giovani dèi che, producendo trambusto e baccano, infastidiscono la quiete di Apsū, che se ne lamenta presso Tiamat, in modo che essa li castighi e li annienti. Al rifiuto di lei, Apsū è determinato ad agire da solo. Tuttavia, i giovani dèi vengono a conoscenza della decisione di Apsū e ne sono addolorati; il più saggio fra loro, Enki, dopo aver tracciato un cerchio magico che possa proteggere gli dèi dagli attacchi di Apsū, distrugge quest’ultimo. Poi crea un nuovo dio, superiore, dotato di forza e potenza straordinarie: Marduk. Il chiasso provocato dagli dèi – e da Marduk in particolar modo – disturba Tiamat, i cui seguaci la persuadono a dichiarare guerra per vendicare Apsū. Nella battaglia finale si fronteggiano, dunque, Marduk e Tiamat. Marduk giunge al luogo dello scontro: il suo aspetto incute tanto timore da mettere in fuga l’intero esercito nemico. Solo Tiamat resta immobile. Nel corso del feroce duello (Figura 1), Marduk scaglia su Tiamat una rete nella quale aveva racchiuso i venti dell’est, dell’ovest, del nord e del sud. Quando Tiamat, intrappolata dalla rete, spalanca la bocca per distruggerlo, Marduk vi getta dentro il vento malvagio, cosicché essa non possa più serrare le labbra. Il dio scaglia allora il colpo finale. Sconfitta Tiamat, Marduk la osserva e riflette su come “dividerla” per “far(ne) cose belle” (come si legge nel medesimo poema Enûma Eliš), ossia si accinge a completare la creazione. Con una parte del corpo di Tiamat, il dio copre il cielo. Camminandovi attraverso, stabilisce guardiani e dimore di dèi. Genera le stelle (tra cui la Polare) e fissa l’anno, dividendolo in dodici mesi e ponendo ciascuno di questi sotto l’egida di tre stelle. Come recita il poema Enûma Eliš, Marduk fa “splendere la Luna e le affida la notte”, indicandole quali debbano essere le sue fasi, come debba regolarsi con il cammino del Sole e come governare i giorni di ogni mese. Poi Marduk, da altre parti del corpo di Tiamat, genera le nuvole, le montagne, i fiumi Tigri ed Eufrate, plasmando così “il tutto”. 

Enheduanna, la prima “astronoma”. La matematica e lo studio del cielo in Mesopotamia

Spostiamoci, ora, dal piano mitologico a quello più propriamente scientifico. Fino a questo momento, nel nostro percorso, abbiamo offerto prove “indirette” dell’interesse dell’uomo preistorico e protostorico verso la volta stellata. Significativi indizi presenti in siti archeologici e reperti sono stati analizzati dagli studiosi di archeoastronomia nel tentativo di comprendere quali conoscenze fossero già diffuse in queste epoche. Ma, per l’appunto, siamo di fronte a “prove indirette” poiché in nessuno dei casi finora descritti i riferimenti astronomici possono dirsi espliciti. Ebbene, un cambiamento radicale si verificò con l’introduzione della scrittura.

Come abbiamo detto, tale invenzione è da attribuirsi ai Sumeri. Il legame fra la scrittura e l’astronomia può dirsi emblematicamente incarnato dalla dea Nisaba, patrona della scrittura e delle misurazioni, spesso rappresentata mentre registra il tempo assieme a Nanna, dio della Luna, tenendo sulle ginocchia una tavoletta di lapislazzuli su cui sono incise le stelle del cielo. E proprio a Nanna si era consacrata la prima sacerdotessa – ed astronoma – che la Storia ricordi: Enheduanna, figlia del re accadico Sargon. Vissuta ad Ur nel XXIV secolo a.C., Enheduanna è considerata la più antica poetessa e scrittrice ad oggi nota. A lei sono attribuiti inni e poesie giunti sino a noi, tra i quali spicca l’opera Nin-me-šar2-ra (153 versi in lingua sumerica), in cui sono riportate anche alcune sue osservazioni lunari.

Disegno di Anna Maragno

Figura 2. Particolare del grande kudurru del re Meli-Shipak II (1.186 a.C. - 1.172 a.C.), conservato al Musée du Louvre (Francia), in cui il re presenta la figlia alla dea Nanaya. Nella parte raffigurata (quella superiore), sono riconoscibili la stella di Ishtar (probabilmente Venere), una mezzaluna (simbolo del dio della Luna, Nanna/Sin) e il disco del Sole con i suoi raggi (associato al dio Shamash). I kudurru erano utilizzati dai Babilonesi quali pietre di confine poste ai limiti dei campi; solitamente recano incisi i contratti concernenti la concessione dei fondi da parte del re, oltre ad immagini e a simboli riferiti alle divinità maggiori del pantheon mesopotamico.

Con ogni probabilità, furono i Sumeri ad intraprendere lo studio del cielo nel corso del III millennio a.C., seguiti poi da Assiri e Babilonesi. Si stima che, nel corso del Secondo impero babilonese, siano state identificate più di 4.000 stelle. Tali indagini, che comprendevano ormai l’intera volta stellata, avevano raggiunto una precisione sorprendente. 
Un primo esempio di tale perizia è offerto dal più antico reperto in materia rinvenuto nell’area mesopotamica: la Tavoletta di Venere di Ammi-Saduqa, in cui sono annotate le levate e i tramonti eliaci di Venere per un periodo di 21 anni. La tavoletta è parte dell’Enuma Anu Enlil, a sua volta il più risalente registro di fenomeni astronomici in Mesopotamia, datato al XVII secolo a.C. e contenente osservazioni riferite al Sole, alla Luna e alle sue eclissi e ai pianeti. Secondo gli studiosi, questi dati erano poi utilizzati allo scopo di ricavarne presagi o messaggi divini. 
Un’altra significativa testimonianza dello sviluppo raggiunto dall’astronomia mesopotamica è rappresentata dal prezioso MUL.APIN, un compendio delle posizioni e dei movimenti di stelle e di costellazioni compilato, approssimativamente, nei primi secoli del I millennio a.C. (benché alcuni studiosi ipotizzino un’origine ancora più antica).
Grazie alla scoperta e allo studio del MUL.APIN è stato possibile suddividere le costellazioni mesopotamiche in tre gruppi: alcune sono infatti riferibili a divinità, altre ad animali, altre ancora mostrano legami con il mondo agricolo. Tali suddivisioni suggeriscono anche gli ambiti in cui le conoscenze astronomiche erano impiegate (dalle osservazioni dei sacerdoti nei templi a necessità di ordine pratico come i cicli delle semine e dei raccolti). Altri reperti, di epoca più tarda, riportano numerosi almanacchi astronomici e registri riferiti alle osservazioni di orbite planetarie. 

British Museum, https://www.britishmuseum.org/collection/image/152339001, via Wikimedia commons

Figura 3. Tavoletta 1 del MUL.APIN, quasi completa, in argilla, con due colonne di iscrizioni contenenti informazioni quali le tre divisioni del cielo, le date di levata delle stelle principali e i giorni in cui queste sorgono e tramontano insieme (in un anno ideale di 360 giorni) e le costellazioni poste lungo il cammino della Luna. La tavoletta è oggi conservata al British Museum (Regno Unito).

La letteratura mesopotamica è ricca di riferimenti astronomici, tanto numerosi da non poter essere considerati singolarmente in questa sede. Si deve evidenziare come, grazie all’invenzione della scrittura, la civiltà mesopotamica sia la prima (per quanto ne sappiamo) ad aver consegnato alla Storia le prime attestazioni dirette non solo nel campo dell’astronomia, ma prima ancora, in quello della matematica, disciplina che pose le basi allo studio della prima. 

Appare accertato, infatti, che i popoli mesopotamici, e i Babilonesi in particolare, facessero uso di un sistema di numerazione posizionale, ovvero assegnassero alle cifre un valore diverso a seconda della loro collocazione: anche noi, oggi, adottiamo tale metodo, per cui un numero nelle unità, ad es. 1, non possiede lo stesso valore se compare nella posizione delle decine (10), delle centinaia (100) e così via. Per quanto ne sappiamo, inoltre, il sistema di numerazione doveva essere in base sessagesimale; anche se il nostro è in base decimale, persiste oggigiorno ancora una traccia di quell’antica base nel modo di misurare gli angoli (ogni grado è pari a 60 minuti d’arco e ogni minuto d’arco corrisponde a 60 secondi d’arco) e le ore (ogni ora conta 60 minuti e ogni minuto è diviso in 60 secondi). L’acquisizione di conoscenze matematiche – definite molto avanzate da parte degli studiosi – permisero ai popoli mesopotamici di progredire significativamente nello studio dell’astronomia, presso di loro inscindibilmente legata all’astrologia (come si è detto, erano infatti i sacerdoti-astronomi ad osservare gli astri, interpretandone i movimenti nel tentativo di ricavarne presagi o messaggi divini). 

È opinione condivisa che si debbano ai Babilonesi, oltre all’elaborazione di un calendario lunisolare raffinato e preciso, in grado di colmare il divario tra anno solare e anno lunare inserendo periodicamente un mese intercalare2, anche l’individuazione delle costellazioni dello Zodiaco e, su questa scia, il concetto di eclittica (ossia, della traiettoria apparentemente compiuta dal Sole sulla sfera celeste durante l’anno). Grazie alla loro conoscenza del ciclo di Saros (periodo di 232 mesi lunari, pari a 18 anni e 11 giorni, al termine del quale il Sole, la Terra e la Luna tornano nella medesima posizione reciproca), i Babilonesi furono in grado di prevedere le eclissi di Sole e di Luna. 

disegno di Anna Maragno

Figura 4. Frammento SM.162 di una tavoletta d’argilla circolare, di epoca tardo-assira, in cui sono registrate alcune costellazioni. Si tratta, probabilmente, di una porzione della sezione di una sfera o di un astrolabio; sono altresì presenti iscrizioni riferite ai nomi dei mesi. Dunque, il reperto, oggi conservato al British Museum (Regno Unito) ed appartenente alla serie riferita alla biblioteca di Assurbanipal (a Ninive), era verosimilmente parte di un calendario stellare.

Le nostre costellazioni sono mesopotamiche?

Può dirsi affermata, tra gli studiosi, l’idea che i diversi popoli dell’antichità nell’area mediterranea e medio-orientale abbiano individuato – seppur con alcune differenze – le stesse costellazioni, collegando idealmente fra loro stelle ben visibili nel cielo. Poteva accadere, però, che alcune costellazioni fossero “importate” da civiltà vicine con le quali si intrattenevano rapporti. Le costellazioni oggi conosciute sono state, per la maggior parte, ereditate dal cielo dei Greci, e per questo motivo sono legate ai racconti della mitologia classica. Ma, secondo l’astrofisico Bradley Elliott Schaefer, gli stessi Greci avrebbero ripreso molte delle costellazioni del cielo della Mesopotamia. Probabilmente ciò avvenne non prima del 500 a.C.; infatti, nelle fonti greche più risalenti (poemi omerici e opere di Esiodo), sono nominate solo due costellazioni (Orione e l’Orsa Maggiore), due ammassi stellari (le Pleiadi e le Iadi) e due stelle (Sirio e Arturo). Se si instaura un parallelismo tra le costellazioni mesopotamiche e quelle greche, è possibile notare che alcune recano nomi quasi coincidenti: le costellazioni indicate dagli Assiri come Pesce-Capra e Grandi Gemelli diventano, presso i Greci, quelle del Capricorno e dei Gemelli. Altre, invece, differiscono: le costellazioni del Bracciante Agricolo e della Rondine assumono, in Grecia, i nomi di Ariete e di Pesci. Altre ancora, viceversa, appaiono di origine prettamente ellenica e non pare possibile ricondurle alla Mesopotamia. 

Antichi cannocchiali 

Dalle numerose tavolette cuneiformi di carattere astrologico-astronomico rinvenute presso la biblioteca di Assurbanipal a Ninive, è possibile dedurre che gli Assiri e, più tardi, i Babilonesi, durante le loro osservazioni, fossero soliti misurare le distanze apparenti fra gli oggetti celesti mediante il palmo e le dita della mano. Ma alcuni calcoli risultano talmente precisi da aver indotto gli studiosi ad ipotizzare che le relative osservazioni siano avvenute attraverso l’ausilio di strumenti ottici. Sappiamo che l’occhio nudo non è in grado di distinguere un angolo minore di 1 minuto d’arco: ebbene, le tavolette cuneiformi riportano misurazioni che si riferiscono ad angoli molto inferiori. Dunque, secondo l’opinione dell’assiriologo Giovanni Pettinato, è verosimile che fossero in uso sistemi di puntamento quali la balestriglia. Di questi ultimi, però, non c’è traccia tra i reperti o nelle fonti. Al contrario, sia nei testi sia nei ritrovamenti archeologici si rintracciano indizi che suggeriscono un possibile utilizzo di cannocchiali. Per quanto riguarda le fonti scritte, ad avvalorare tale ipotesi sono soprattutto alcune tavolette di età tardo-assira in cui sono registrate consegne di lenti, con supporto di “tubi d’oro”, ad astrologi. In alcuni frammenti, inoltre, è precisato che tali lenti avevano il preciso compito di “ingrandire la pupilla”. Quanto ai reperti archeologici, assumono particolare rilevanza gli scavi condotti da Austen Henry Leyard presso Ninive, alla metà del XIX secolo, in occasione dei quali era stata rinvenuta una lente piano-convessa in cristallo di rocca. Secondo Pettinato, questi elementi sarebbero già sufficienti a sostenere l’ipotesi che Assiri e Babilonesi impiegassero il cannocchiale in ambito astronomico. A supporto dell’intuizione di Pettinato, si aggiungono i ritrovamenti di oggetti riconducibili a lenti di ingrandimento in diversi siti archeologici dell’antichità (Tiro, Pompei, Cnosso, Fayum): una diffusione così vasta vale a puntellare la tesi dell’utilizzo di un cannocchiale per scopi astronomici nei tempi antichi. Anche lo studioso George Kyrala, negli anni ’70 dello scorso secolo, prese in seria considerazione la possibile esistenza di cannocchiali assiri e babilonesi. Il suo ragionamento era semplice: dato che questi popoli avevano legato a Giove il dio supremo Marduk, probabilmente sapevano che si trattava del pianeta più grande del Sistema Solare. Ma come avevano ottenuto tale informazione? Il diametro angolare di Giove varia dai 30 ai 50 secondi d’arco, in base alla propria distanza dalla Terra durante la sua orbita: tale intervallo di valori è ben al di sotto del limite della risoluzione angolare per l’occhio nudo (fissata, come detto, ad 1 minuto d’arco). Infatti, ad occhio nudo, Giove, così come gli altri pianeti del Sistema Solare, appare come un semplice puntino luminoso. Dunque, secondo lo studioso, il confronto fra i vari pianeti allora conosciuti, allo scopo di determinare quale fosse il più grande, sarebbe stato possibile grazie all'utilizzo di un cannocchiale. Kyrala si spinge oltre, sollevando un certo scetticismo da parte di altri esperti: egli ipotizza che tale misurazione sia stata completata non solo paragonando i diametri angolari dei pianeti, ma anche le loro rispettive distanze dalla Terra. E ciò poteva essere calcolato soltanto all’interno di una teoria che, seppur rudimentale, interpretava le orbite planetarie come cerchi. 

Proponiamo, in chiusura, la lettura di una suggestiva invocazione (in antico babilonese) agli “dèi della notte”, ossia alle stelle e ai pianeti, richiamando l’attenzione sull’abilità dimostrata dagli abitanti della terra tra il Tigri e l’Eufrate di saper affiancare alle osservazioni a scopo religioso calcoli matematici di rilevante finezza, spalancando quindi i “portali” delle loro menti alla conoscenza “del cielo spazioso” ancora tanto sconosciuto. 

Preghiera agli dèi della notte3

[Scongiuro] È quieta la campagna,

sono chiusi gli usci (delle case),

sbarrate le porte (della città),

abbassati i chiavistelli, tace la regione.

Solo aperti sono i portali del cielo spazioso,

i grandi dèi della notte che di lontano vigilano sono [presenti (?)].

Entrate, o dèi della notte, voi, stelle maggiori:

Costellazioni Musir-kešda (Giogo e corona), Sibzianna (Orione),

Šulpaè (Giove e Cancro), Margidda (Orsa Maggiore), Nebiru

(Libra), Bir (Marte), Entenabarguz (Cinghiale), Asgan (Canale).

Entrate, o dèi della notte, e [. . .],

stelle del nord, stelle del sud, stelle dell’est e stelle dell’ovest.

Entra, Ninsianna (Ištar), grande dea, e tutte le rimanenti stelle!

Chi v’invoca ottiene di certo [quanto brama].

Costui, N. N., invocandovi ha ottenuto [quanto desiderava].

Da sempre, chi concede favore [siete voi].

Buona grazia, esaudimento, far vivere, si trovano [presso di voi].

Da voi si trova lo scioglimento della colpa, dell’ira, del corruccio,

                                                             [furore e peccato d’astuzia.

Chi si rivolge a voi, favorite il suo dire, ne accogliete la parola.

 

Testi e disegni originali di Anna Maragno. Non riprodurre senza autorizzazione.



Note

1. Cfr. J.Bottéro, S. N. Kramer,  Uomini e dei della Mesopotamia. Alle origini della mitologia, a cura di G. Bergamini, Einaudi, Torino, 1992, p. 643.

2. Su questo punto, si rimanda al percorso dell’anno 2021 Horas doceo. Storia della misurazione del tempo.

3. Il testo tradotto della preghiera è tratto da G. R. Castellino (a cura di), Testi sumerici e accadici, UTET, Torino, 1977, pp. 648-649.

Fonti delle immagini

Figura 1. Disegno originale di Anna Maragno, non riprodurre senza autorizzazione.

Figura 2. Disegno originale di Anna Maragno, non riprodurre senza autorizzazione.

Figura 3 Brutish Museum, CC, via Wikimedia Commons al link https://it.wikipedia.org/wiki/File:MulApin-BritishMuseum.jpg

Figura 4. Disegno originale di Anna Maragno, non riprodurre senza autorizzazione.



Bibliografia e consigli di lettura

Bersanelli, M., Il grande spettacolo del cielo. Otto visioni dell’universo dall’antichità ai nostri giorni, Sperling & Kupfer, Milano, 2018

Boitani, P., Il grande racconto delle stelle, Società editrice il Mulino, Bologna, 2012

Bottéro, J., Kramer, S. N., Uomini e dei della Mesopotamia. Alle origini della mitologia, a cura di G. Bergamini, Einaudi, Torino, 1992

Brooke-Hitching, E., L’Atlante del Cielo. Le mappe più belle, i miti e le meraviglie dell’universo, tr. it. a cura di V. Gorla, Mondadori, Milano, 2020 

Cossard, G., Cieli perduti. Archeoastronomia: le stelle degli antichi, Utet, Torino, 2018

Furlani, G. (introduzione, traduzione e commento di), Miti babilonesi e assiri, Sansoni, Firenze, 1958

Hack, M., Domenici, V., Notte di stelle. Le costellazioni fra scienza e mito: le più belle storie scritte nel cielo, Sperling & Kupfer, Milano, 2018

Hack, M., Ferreri, W., Cossard, G., Il lungo racconto dell’origine. I grandi miti e le teorie con cui l’umanità ha spiegato l’Universo, Sperling & Kupfer, Milano, 2018

Hunger, G., Steele, J., The Babilonian Astronomical Compendium MUL.APIN, Routledge, London, New York, 2019

Hunger, H., Pingree, D., Astral Sciences in Mesopotamia, Brill, Leiden, Boston et al., 1999

Kramer, S. N., I Sumeri alle radici della storia, tr. it. a cura di Enzo Navarra, Newton Compton editori, Roma, 1979 

Kramer, S. N., The Sumerians: their history, culture, and character, The University of Chicago Press, Chicago, London, 1963

Kyrala, G. A., Speculations on Babylonian Telescopes, Planetary Distances and Sizes, in «Sumer. A Journal of Archaeology and History in Iraq» 28 (1972), pp. 21-28

Leopardi, G., Storia dell’astronomia dalla sua origine fino all’anno MDCCCXIII, con uno scritto di A. Massarenti e un’appendice di L. Zampieri, BookTime, Milano, 2008

Pettinato, G. (a cura di), Mitologia assiro-babilonese, Utet, Torino, 2005

Pettinato, G. (a cura di), Mitologia sumerica, Utet, Torino, 2001

Pettinato, G., I Sumeri, Bompiani, Milano, 2007

Pettinato, G., La scrittura celeste. La nascita dell’astrologia in Mesopotamia, Mondadori, Milano, 1999

Schaefer, B. E., The Origin of the Greek Constellations, in «Scientific American» 295, fasc. 5 (2006), pp. 96-101

Van Dijck, J., Sumerische Religion, in J. P. Asmussen, J. Læssøe, C. Colpe (herausgegeben von), Handbuch der Religionsgeschichte, I, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1971, pp. 431-396