Biografia estratta da http://www.geocities.com La nascita del pensiero scientifico moderno di D. Bucci
(1564-1642) Galileo Galilei è un personaggio al quale la cultura scientifica moderna deve certamente moltissimo; forse è stato uno dei primi scienziati – i quali all’epoca si definivano “filosofi della natura”– ad aver inteso veramente la scienza non più in termini qualitativi, ma in una visione quantitativa dalla quale la matematica non poteva essere esclusa. Ecco cosa viene detto in proposito da A. Einstein e L. Infeld su di un loro classico libro di storia della fisica: “La scienza collegante teoria ed esperimento non data realmente che dagli scritti di Galileo”. Prima di lui, l’astronomia e gli eventi naturali venivano spiegati in termini aristotelici, ossia secondo un corpus di dottrine che Aristotele aveva presentato in alcuni libri fra i quali il De caelo. La fisica aristotelica concepiva una descrizione del mondo in termini antropocentrici ed abbastanza legati alle esperienze comuni che si presentano ai nostri sensi, in particolare, la fisica era in gran parte legata allo studio del moto dei corpi solidi che venivano classificati in “leggeri” o “gravi” a seconda della loro naturale tendenza verso l’alto (il vapore, il fumo) oppure verso il basso .
L’assunto fondamentale che spiegava i movimenti dei corpi era poi quello che lo stato di moto di un corpo è determinato dalla presenza di una forza che vi agisce; esaurito l’effetto di tale “forza” si perviene in breve tempo alla quiete, la quale competeva alla natura dell’oggetto stesso; per problemi quali l’inerzia, erano state proposte da commentatori di Aristotele teorie che concepivano la presenza di un certo qual “impeto” nel momento in cui la forza cessa di agire e che però si esaurisce poco dopo. La concezione dei cieli adottata era quella geocentrica fornita dal grandissimo astronomo alessandrino Tolomeo (ca 100-170) nell’Almagesto e consentiva invece di effettuare dei calcoli sufficientemente precisi come la predizione delle eclissi e le posizioni dei pianeti; l’astronomia tolemaica fondata sui principi aristotelici è quella descritta da Dante nella Divina Commedia. La terra veniva posta al centro dell’universo, ed era vista però come un oggetto assai poco nobile; essa è infatti popolata da creature mortali ed è corruttibile per sua natura in contrasto con il meccanismo dei cieli immutabili ed incorruttibili e perciò degni degli dei. Attorno alla terra, venivano messi in rotazione i pianeti incastonandoli in tante sfere cristalline le quali si pensava che scorressero perpetuamente una dentro l’altra come un complesso meccanismo ad orologeria senza attrito; al di là delle sfere dei pianeti e del sole esisteva un’ultima grande sfera delle stelle fisse che ruotando forniva la spiegazione dell’alternarsi del giorno e della notte.
La Terra e le sfere celesti, una raffigurazione da Les échecs amoureux, codice miniato degli inizi del XVI secolo. Situazione storica all’epoca di Galileo La vita di Galileo si svolse in un epoca in cui l’Italia stava uscendo dal Rinascimento, un periodo di notevole fermento intellettuale; lo stesso anno della nascita dello scienziato (1564) vide la morte di Michelangelo Buonarroti e, in Inghilterra, la nascita di Shakespeare. L’Italia, dalla pace di Cateau Cambrésis (1559) fino alla pace di Vestfalia (1648) attraversò un periodo di soggezione sia diretta che indiretta al grande peso politico della Spagna, la quale iniziò a formarsi un vastissimo impero coloniale oltreoceano. Nell’Italia di quel periodo figurarono in particolare la Repubblica di Venezia, lo Stato sabaudo che acquistò crescente importanza (la capitale venne trasferita da Chambéry a Torino) con Emanuele Filiberto duca di Savoia (1553-1589), la Toscana dei Medici e lo Stato pontificio, mentre tutto il meridione era sotto una pesante influenza spagnola.
Un fatto di molta importanza fu poi l’affissione delle 95 tesi protestanti sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg nel 1517 da parte di Martin Lutero e che avrebbero poi scatenato un’ampia eco culturale per tutta l’Europa e mettendo in dura crisi l’autorità pontificia; per fronteggiare questa crisi vi fu il Concilio di Trento (13 dicembre 1545-4 dicembre 1563) al cui termine la Chiesa venne proclamata diretta ed indispensabile intermediaria fra Dio e gli uomini, soprattutto per quello che concerneva l’interpretazione delle Scritture le quali però, diversamente dai protestanti, non erano considerate le uniche fonti della fede, ma erano integrate dalla tradizione derivante da Cristo e conservate dalla Chiesa. L’Inghilterra attraversava l’età elisabettiana e nel XVI secolo acquistò sempre maggior potere nel quadro delle nazioni europee, anche con la sconfitta inferta alla spedizione navale spagnola della “Invencible Armada” nel 1588.
La Francia, con Enrico IV (1589-1610) venne emanato l’Editto di Nantes (1598) che conferiva libertà di culto agli ugonotti e permetteva loro di mantenere un certo numero di fortezze armate. Gli anni della giovinezza Galileo Galilei nacque a Pisa, nel 1564 da una famiglia di mercanti abbastanza agiata, suo padre Vincenzo (1525ca-1591) fu un famoso liutista e occupò un ruolo di un certo rilievo nella vita musicale del periodo; oggi è ricordato per la pubblicazione di numerose opere teoriche, soprattutto il “Fronimo” (1568) ed il “Dialogo della musica antica et della moderna” (1581). Il giovane Galileo intraprese nel 1581 a Pisa gli studi di medicina che tuttavia interruppe senza laurearsi, ma venendo comunque a contatto con studiosi di grande levatura come Francesco Buonamici, un buon commentatore di Aristotele, ed acquisendo privatamente un considerevole bagaglio culturale nel campo della geometria. Proprio il Buonamici giocò un ruolo di una certa rilevanza nel pensiero di Galileo per la notevole importanza che egli attribuiva all’esperienza la quale, come vedremo, è uno dei cardini del pensiero galileiano; in particolare Buonamici riteneva che alla metafisica non spettasse il compito di trovare le basi della filosofia naturale o di investigare sul pensiero matematico, ma potesse essere complementare ad esse per trovare le cause e, in ultima istanza, Dio stesso. Il primo evento che portò il giovane Galileo a guardare il cielo fu una cometa che egli vide nel 1577 da Firenze o, più probabilmente, da Vallombrosa, ma non sembra che il giovinetto tredicenne ne fosse stato spinto ad occuparsi di astronomia in maniera più approfondita in questo primo momento.
La prima volta in cui Galileo sentì parlare di Copernico e del suo eliocentrismo fu durante gli anni dell’università, nel 1584 o nel 1585, durante una lezione sul De caelo aristotelico. L’ipotesi dell’eliocentrismo, ossia del sole al centro di un sistema composto dai pianeti che vi orbitano intorno era per la verità molto antica risalendo alla scuola pitagorica ed era stata portata nuovamente in auge da Copernico nel suo trattato nel 1543 soprattutto a causa di un problema (più che altro filosofico) che era presente nel modello tolemaico. Questo era costituito dalla teoria degli epicicli i quali erano un artificio matematico ideato da Tolomeo che permetteva di spiegare le osservazioni dei moti dei pianeti rispetto alla volta stellata le quali a volte non si presentavano affatto come rettilinee e contraddistinte da velocità costanti, ma sembravano comporre dei nodi e degli occhielli nel loro tragitto; Marte in particolare si presentava con un movimento apparente abbastanza complesso. Il moto apparente di un pianeta può essere visto come la composizione di un moto circolare (epiciclo) attorno ad un'orbita principale (deferente) Per spiegare questi movimenti e per permettere di compiere delle predizioni precise, Tolomeo aveva pensato di far muovere i pianeti non proprio in moto circolare uniforme attorno alla Terra, ma su di un insieme di cerchi (gli epicicli) il cui centro era situato sull’orbita principale di rivoluzione.
La posizione del pianeta poteva essere calcolata in maniera semplice adottando un artificio noto come composizione dei moti, ossia “sommando” il contributo dell’orbita principale con quello degli epicicli e tutta la teoria forniva predizioni abbastanza accurate delle posizioni dei pianeti all’interno della volta celeste. Sotto questo aspetto, la tesi fornita da Copernico non consentiva di migliorare sensibilmente la precisione dei calcoli, ma evitava l’uso del meccanismo degli epicicli in modo da restituire, in nome della migliore ortodossia aristotelica la quale lo considerava privilegiato, il moto circolare uniforme ai pianeti. Bisogna puntualizzare però che il libro di Copernico, il De revolutionibus orbium coelestium, fu pubblicato quando l’autore era ormai morente e vi fu aggiunta un’introduzione scritta da un teologo di nome Osiander in cui si asseriva che “Non è infatti necessario che quelle ipotesi siano vere, anzi neppure che siano verosimili, ma basta solo che mostrino il calcolo in armonia con i fenomeni osservati”, insomma, lo scienziato è libero di fare cosa vuole giocando con la matematica purché rimanga ben conscio che non potrà mai pervenire alla verità alla quale si può accedere solo con la metafisica ed è racchiusa nei libri di Aristotele.
Come vedremo, il giovane Galileo non era di questo avviso… Un fatto in particolare fu determinante per il nostro scienziato contro l’incorruttibilità dei cieli propugnata da Aristotele, e questo fu l’apparizione di una supernova nel 1604. Una supernova è forse l’ultima grande manifestazione di una stella morente, oggi si pensa che, alla fine del combustibile nucleare, stelle aventi una massa compresa fra certi limiti tendano a collassare su se stesse, per poi esplodere violentemente rilasciando quantità di energia enormi in periodi straordinariamente brevi. Il sistema solare nell’ipotesi di Tycho Brahe; attorno alla Terra orbita la luna ed il sole, attorno al quale invece si muovono gli altri pianeti. Il modello ticonico rappresentava un tentativo di conciliare le ipotesi classiche di fissità della terra con la semplicità concettuale del modello di Copernico. Queste esplosioni sono probabilmente gli eventi più violenti di tutto l’universo e sono a volte visibili da terra presentandosi come “stelle nuove” prima non osservabili, che tendono a scomparire nuovamente dopo un periodo di qualche mese.
Di osservazioni di novae ve ne furono diverse nell’antichità, e qualche anno prima, nel 1572 un’altra fu osservata da Tycho Brahe. Il problema che si pose Galileo quarantenne fu quello di misurare la posizione di questa nova e poté appurare che essa era situata senza dubbio al di là della luna e non poteva essere affatto un fenomeno meteorologico; il problema non era per nulla ingenuo, la constatazione dello scienziato non era solo oggetto di discussioni tecniche fra filosofi della natura, ma minava gravemente alla base tutto il pensiero naturale aristotelico! Ovviamente questo non fece che rafforzare le convinzioni copernicane già radicate nell’animo dello scienziato e scatenò prevedibilmente feroci polemiche: il problema non era quello di determinare la natura di questa stella, ma il far crollare le basi di un sapere consolidato e millenario; si pensi a quello che si legge in un libello filogalileiano forse scritto dallo scienziato stesso: “Dove i matematici ragionan eglino in questo modo? Se loro si occupano solamente del misurare, che gli fa a loro s’e’ sia generabile o no? S’e’ fosse anche di polenta, non potrebbero essi sé più né meno prenderlo di mira? Oh, e’ mi fa proprio ridere con le sue ciarle” infatti, se si poteva appurare di aver assistito ad un fenomeno celeste e non metereologico, “tutta la filosofia naturale sarebbe una baia […] Cànchero, l’ha avuto torto questa stella a rovinare così la filosofia di costoro”.
E’ abbastanza evidente in queste poche righe scritte con feroce ironia la base del pensiero galileiano: accontentiamoci di misurare i fenomeni, osserviamo con qualunque mezzo tutto quello che possiamo, cerchiamo di inserire in un contesto organico e coerente le nostre osservazioni (è qui che entra in gioco la matematica), in modo da poter formulare predizioni quantitative; non facciamo metafisica e non speculiamo su aspetti che non possiamo verificare. Il valore della scienza sta nelle predizioni che essa è in grado di fornire, e non nella spiegazione del perché dei fenomeni che avvengono; questo può apparire un modo di operare freddo e sterile a chi non abbia sviluppato una sensibilità scientifica, ma non lo è: come sosteneva una delle menti più versatili della fisica del XX secolo, Richard Feynman, la natura ha molta più fantasia di qualunque poeta o qualunque filosofo, si tratta solo di accostarsi ad essa in silenzio e, con umiltà, osservare… “La sconfinatezza dei cieli sfida la mia immaginazione; intrappolato in questo carosello senza fine, il mio piccolo occhio può scorgere luce antica di un milione di anni. Un enorme meccanismo -di cui io sono parte- laggiù sta eruttando all’unisono e, forse, la stessa materia di cui io sono composto è stata eruttata da qualche stella ormai dimenticata. Oppure posso vederle con l’occhio più esteso di Palomar, mentre fuggono veloci da qualche punto comune in cui esse si trovavano forse tutte insieme…
Qual è questo meccanismo, il significato, il perchè? Non arrechiamo danno al mistero conoscendone qualche dettaglio.”2. Ciò che colpisce di Galileo è la straordinaria modernità di quello che asserisce; secondo chi scrive egli merita forse di essere ricordato forse non tanto per aver scoperto questa o quella legge fisica (cosa che peraltro non mancò di fare…), ma quanto più nell’aver ideato il contesto culturale nel quale le stesse leggi andavano inserite. La scoperta delle “stelle medicee” Un eccezionale strumento di indagine nelle mani di Galileo diventò il telescopio a partire dall’estate del 1609, periodo in cui egli venne a conoscenza dell’esistenza dello strumento ed impiegò poco tempo a comprenderne il funzionamento ed a costruirne un proprio esemplare. Disegni effettuati da Galileo durante le sue osservazioni della Luna. Galileo non fu probabilmente il primo ad usare il cannocchiale (esso era noto almeno dalla fine del 1500 e le lenti venivano molate abitualmente per la costruzione di occhiali) e forse neppure puntarlo verso il cielo, ma sicuramente fu il primo a capire cosa guardare; venne inoltre aiutato da un periodo di buone condizioni metereologiche che consentivano buone osservazioni. Il risultato delle sue notti insonni è il Sidereus Nuncius (1610), un’opera che avrebbe procurato un’immensa fama allo scienziato in tutta Europa, ma anche i primi guai con la Chiesa di Roma.
In essa erano racchiuse, oltre ad una breve descrizione dello strumento, anche delle scoperte eccezionali, la prima delle quali riguardava la Luna. Essa infatti non si mostrava affatto come liscia ed uniforme, ma era profondamente increspata e le ombre osservabili con lo strumento lo rendevano molto evidente; tutto ciò contrastava ovviamente con la perfetta armonia dei cieli cristallini ed immutabili. Ma la scoperta di gran lunga più rilevante fu quella dei satelliti di Giove che egli battezzò “Stelle medicee”, in onore di Cosimo II de’ Medici, Granduca di Toscana; egli le osservò per la prima volta nel gennaio del 1610 e riuscì a calcolarne con considerevole precisione il periodo orbitale. Questo assestava ancora un duro colpo alle ipotesi aristoteliche perché uno dei punti a favore della fissità della terra era la difficoltà di pensare che un oggetto come la Luna potesse orbitarvi attorno se essa non fosse ferma al centro dell’universo; l’osservazione di “lune” di un altro pianeta dimostrava quindi la falsità di quest’argomentazione. E’ facile comprendere come la portata di queste osservazioni fosse immensa, minasse ancora una volta alla base le tesi aristoteliche, e trascinasse in un oceano impetuoso di polemiche il loro per la verità poco diplomatico autore… Alcune delle critiche erano di tipo metafisico, del tipo: “Dio ha creato l’universo prediligendo il numero sette e pertanto i pianeti sono solo sette e le stelle medicee costituiscono un colossale abbaglio”, inutile dire che la penna di Galileo fosse piuttosto acida nel rispondere ad argomentazioni di questo genere! Altre accuse erano invece tutt’altro che infondate ed erano collegate al fatto che la prassi della costruzione del cannocchiale era ben nota (Galileo stesso era un eccellente costruttore di strumenti scientifici ed il suo telescopio era di qualità adeguata alla sua fama, anche se oggi sarebbe agilmente superato da un buon binocolo) ma non era conosciuta affatto la teoria dell’ottica geometrica che ne spiegava il funzionamento. Chi poteva dire che ciò che scorgeva il nostro astronomo non fosse un’illusione provocata dallo strumento? In realtà, probabilmente lo studioso prese un po’ sottogamba le polemiche in cui era coinvolto, forse troppo fiducioso della protezione del Granduca fiorentino il quale però rimaneva comunque ben attento alla situazione politica… Altre osservazioni compiute da Galileo furono quelle delle fasi di Venere e delle macchie solari; pure queste ultime costituivano un grosso indizio contro la solita tesi aristotelica dell’immutabilità degli oggetti celesti. Il nostro studioso comunque da buon matematico noto solo in ambiente accademico si era trasformato in un personaggio molto chiacchierato e le sue prese di posizione contro i filosofi “in libris” che cercavano la verità fra le pagine dei testi gli procurarono, com’era prevedibile, ostilità molto accese e, non potendo attaccare Galileo sul piano scientifico, si passò alla religione.
La Chiesa di Roma infatti era in pieno periodo controriformistico e, per evitare di perdere potere intellettuale e politico in Europa, seguiva una politica di repressione abbastanza pesante, come conferma la condanna di Giordano Bruno al rogo in Campo dei fiori a Roma nel 1600. L’accusa a Galileo fu iniziata in questa prima fase (vedremo la sconfitta definitiva dello scienziato circa vent’anni dopo) da un certo Ludovico delle Colombe, il quale era un personaggio alquanto bramoso di possedere la benevolenza dei potenti e forse suggerì per la prima volta la possibilità di fermare lo studioso con un discorso da un pulpito e non con una disquisizione sulla natura. Il problema non era impedire che Galileo vedesse, pensasse e traesse le debite conclusioni, ma era l’evitare che questi pensasse di poter scorgere la verità, ben custodita ed intoccabile nella metafisica, vista come l’unica via percorribile per il vero, ed oggetto delle dotte disquisizioni dei filosofi. Proprio quelli che egli attacca senza riserva di colpi! Osservazioni compiute da Galileo sulle fasi di Venere; in alto si vede un disegno di Saturno (Galileo non riuscì ad individuare chiaramente l'anello) Sembrerà strano, ma a tutt’oggi la situazione non pare cambiata di molto, almeno a sentire alcuni discorsi che purtroppo mi è capitato di ascoltare… Feynman dirà trecento anni dopo che “tutte le disquisizioni intellettuali che potete fare non riusciranno a comunicare ad orecchie sorde quella che è veramente l’esperienza della musica”. L’opera di Ludovico e dei suoi seguaci contro Galileo viene chiamata congiura dei “colombi” e loro dimostrarono di sapersi muovere con considerevole perizia nella situazione politica e diplomatica del periodo, aspetto che Galileo, probabilmente troppo fiducioso nella protezione del Granduca, forse trascurò alquanto. Un segnale di pericolo gli giunse però quando l’ipotesi dell’inconciliabilità delle tesi da lui proposte contro la filosofia naturale aristotelica e le Sacre Scritture venne riportata alle orecchie di Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana nonchè devotissima cristiana. Tale illazione non deve stupire: pensiamo a quanta fatica gli studiosi ed interpreti medioevali hanno dovuto fare per conciliare le ipotesi di Aristotele con la descrizione biblica ed ora saltava fuori uno che aveva la pretesa di stravolgere tutto come un immenso castello di carte! La mossa era quindi astuta e poneva in pericolo il nostro studioso il quale, per cercare di difendersi in modo adatto alla politica ed alla diplomazia del periodo, inviò una lettera all’amico Benedetto Castelli in cui egli descriveva in dettaglio ciò che pensava sul rapporto fra scienza e fede; infatti il Castelli risiedeva presso la corte di Cristina e poteva far giungere, sia pure per via indiretta, la lettera di Galileo alla duchessa. Il punto era l’intoccabilità delle Scritture per la materia di fede, ma la possibilità di interpretare i passi dedicati alla filosofia naturale in quanto, seppure ispirati da Dio, essi erano stati scritti in forma allegorica per lettori poco acculturati. Non bisognava pertanto prendere alla lettera le affermazioni relative alle questioni scientifiche, ma era opportuno interpretare con saggezza quei passi (che peraltro erano veramente pochi) i quali trattavano esplicitamente dell’organizzazione del creato. Nessun problema sorgeva fra teologia ed astronomia, ma si aveva un nettissimo contrasto fra metafisica e scienza. La situazione iniziò comunque a precipitare quando nel 1613 un domenicano, tal Tommaso Caccini, pronunciò una violentissima invettiva dal pulpito di S. Maria Novella a Firenze contro la matematica (arte diabolica) ed i matematici (eretici) e tale predica, che ovviamente non fu opera dell’iniziativa privata del frate, si fece sentire fino in Vaticano… Non dobbiamo pensare comunque che Galileo, il quale era ovviamente al centro della polemica, non avesse amici; un frate, tal Padre Maraffi gli denunciò il proprio sdegno per la posizione di Caccini e per il fatto che avesse trovato orecchie disposte ad ascoltare proprio a Roma; inoltre Federico Cesi lo invitava a prestare estrema attenzione a non esporsi troppo in quanto Roberto Bellarmino, il cardinale che nel 1600 aveva avuto un peso considerevole nella condanna al rogo di Giordano Bruno, aveva dichiarato di non accettare le tesi copernicane che risultavano così pericolosamente eretiche.
Intanto il Caccini andò in Vaticano ed espose le proprie idee di fronte all’Inquisizione. Nel 1615 una copia della lettera scritta dallo scienziato a Benedetto Castelli venne fatta giungere dall’Inquisizione a Roma, accompagnata da accuse scritte dal professore fiorentino Niccolò Larini e falsificata in diversi punti; comunque, data la gravità della situazione, il Sant’Ufficio diede l’ordine di rintracciare l’originale. La questione venne chiusa da una lettera del cardinale Bellarmino al carmelitano Paolo Antonio Foscarini il quale aveva preso le parti di Galileo sostenendo la conciliabilità delle tesi eliocentriche con le Sacre Scritture, in cui era esposta con durezza la posizione ufficiale della chiesa: l’astronomo poteva dire quello che voleva nel momento in cui si trattava di fare calcoletti matematici, ma non poteva assolutamente pretendere di pervenire alla Verità la quale era, come al solito, raggiungibile solo con la metafisica aristotelica. Le dottrine eliocentriche erano così dichiarate pericolose e si mise in atto una pesante censura sulle opere di Copernico. Il commento di Galileo su questa pesante sconfitta fu tanto breve quanto significativo: “mi vien serrata la bocca”, ma il Bellarmino gli affidò una lettera che lo salvaguardava comunque da accuse e da maldicenze: “il suddetto Sig. Galileo non ha abiurato in mano nostra né di altri qua in Roma, né meno in altro luogo che noi sappiamo, alcuna sua opinione o dottrina, né manco ha ricevuto penitenzie salutari né d’altra sorte, ma solo gl’è stata denuntiata la dichiarazione fatta da N. Sig. […] nella quale si contiene che la dottrina attribuita al Copernico sia contraria alle Sacre Scritture, et però non si possa difendere né tenere” . Il nostro studioso fu dunque costretto al silenzio e, per sbarcare il lunario, cercò di utilizzare il telescopio per altri fini diversi da quelli accademici; è in questo periodo che tentò di sfruttare le prospettive economiche offertagli dalla costruzione di cannocchiali ed altri strumenti Note: 1 - Ad un osservatore moderno, la fisica pregalileiana può apparire semplice e puerile; in realtà essa è stata parto doloroso di molte generazioni delle migliori menti del panorama culturale da Aristotele al Rinascimento. La vera portata della rivoluzione galileiana non può essere compresa se non insistendo sul radicale cambiamento di vedute introdotto: da una studio qualitativo si passa ad uno quantitativo. La matematica rappresenta dunque la chiave di volta di un nuovo sistema che si sviluppa a partire dallo scienziato pisano. Per un'interessante discussione su quest'argomento, si veda “A l'aube de la science classique” in [Koyré]. 2 - Da [Feynman] Il problema del moto Si è già accennata la centralità della ricerca sul moto dei corpi nell’opera di Galileo; egli iniziò ad occuparsi di esso in termini aristotelici già nei primi anni di insegnamento.
Ma, sulla base di esperienze svolte, egli si accorse ben presto della scarsa applicabilità dei dogmi aristotelici alle osservazioni, sia pure in termini qualitativi. Dobbiamo pensare inoltre che il concetto stesso di velocità a noi così familiare, ossia uno spazio diviso per il tempo impiegato a percorrerlo (è questo il significato della scritta Km/h sul tachimetro di un’autovettura), era nel 1600 assai vago; Galileo si trovò dunque a dover definire dapprima in termini trattabili matematicamente questo importante elemento del moto. Ma il problema maggiore era il sistema di calcolo usato dallo studioso in cui non era pensabile effettuare operazioni fra grandezze che non fossero tra loro omogenee, ossia relative a due cose così diverse come lo spazio ed il tempo; egli fu costretto a dover ragionare quindi su rapporti omogenei di velocità riferite a diversi intervalli. In altre parole, per analizzare il movimento di un corpo con un regolo, non potendo semplicemente dividere uno spazio per un intervallo di tempo, egli deve fare riferimento a rapporti di velocità intercorrenti fra le diverse suddivisioni dello strumento; l’indubbio passo in avanti costituisce nel fatto che così è comunque possibile effettuare dei calcoli, ossia delle predizioni. A partire dal 1593 Galileo dimostrò di avere ben chiari i punti deboli degli assunti aristotelici: egli si trovava in possesso di un concetto quantitativo di velocità, era convinto di come non fosse affatto necessaria una forza per mantenere in moto un corpo ed era persuaso della necessità di creare un ponte costituito dall’osservazione e dalla misura fra il “mondo di carta” costituito dai calcoli matematici eseguiti a partire da leggi fisiche ed il “mondo reale” di cui il primo costituisce un modello. Il modello è valido se consente, al solito, di effettuare predizioni le quali possono essere verificate con mezzi sperimentali in una certa approssimazione la quale è tanto migliore quanto più il modello si trova all’interno del proprio campo di attuabilità e quanto è alta la qualità delle misure.
Una cosa fra le altre che rende Galileo uno dei pionieri della fisica è il fatto di essersi reso ben conto della necessità di spogliare un qualunque fenomeno fisico dai suoi particolari inessenziali per coglierne la vera essenza. Il mondo di carta è fatto di oggetti ideali che si muovono in uno spazio ideale: le sfere sono perfette e rotolano senza attrito su di un piano inclinato pure lui perfetto; questo consente di concentrarsi sul moto in sé senza essere costretti ad arrovellarsi su come la presenza delle rugosità del legno vada ad influire sul rotolamento della sferetta la quale, per quanto ben tornita, presenterà comunque dei bozzi irregolari sulla sua superficie sia pure di dimensione molto piccola. Questo non è un fatto banale! Un disegno di George Gamow (1902-1968) che rappresenta Galileo alle prese con il piano inclinato. Pensiamo alla descrizione data da Aristotele della caduta di un grave: esso si muove di una velocità costante la quale dipende direttamente dal peso del corpo ed inversamente dalla viscosità del mezzo in cui esso si muove; ebbene, essa è ragionevolissima, si provi a far cadere una pallina d’acciaio in una vasca d’olio e si noterà che essa, dopo un po’, si muoverà di velocità costante… Quindi siamo a posto, con buona pace dei peripatetici! E invece no: Galileo riesce a fornire una spiegazione ben più profonda e feconda, egli infatti descrive la situazione a prescindere dell’attrito in cui un qualunque grave di qualsivoglia peso e forma si muove verso il basso di moto uniformemente accelerato. Questo vuol dire che se noi gettiamo una pietra dall’alto di una torre alta 50 metri, questa dopo un secondo avrà una velocità di 9,81m/s (35,3Km/h circa), dopo due secondi 19,62m/s (70,6Km/h), doppia della precedente, e così via per arrivare a terra dopo 3,19s alla considerevole velocità di 31,29m/s (112,66Km/h). In formule, detto t il tempo trascorso, a l’accelerazione di gravità (sulla terra all’equatore 9,81m/s2), s lo spazio percorso e v la velocità raggiunta, si avrà: v=a×t , s=0,5×a×t2
Nella già citata opera di Einstein ed Infeld si legge: “Il contributo di Galileo ha consistito nel demolire la veduta intuitiva sostituendola con una assai diversa e nuova. Questo è il grande significato della scoperta di Galileo”. I valori forniti dalle leggi scritte in precedenza sono ovviamente ottenuti trascurando la resistenza dell’aria; in realtà tenendo conto di questo effetto si avrebbe una velocità lievemente inferiore dipendente anche dalla forma dell’oggetto che viene lasciato cadere; ciò è peraltro un bene sotto certi aspetti, altrimenti correremmo il rischio di venire uccisi da un chicco di grandine sparato a centinaia di metri al secondo, oppure anche da una goccia d’acqua a tale micidiale velocità. Peraltro, le gocce d’acqua non avrebbero la forma tondeggiante a cui siamo abituati… Ecco che il nostro mondo idealizzato diventa un poco meno liscio e dobbiamo modellare gli ostacoli al moto: la palla si copre di peli, il piano inclinato diventa un po’ più ruvido e così via… La formulazione della corretta legge di caduta peraltro richiese molto tempo a Galileo per essere scovata sia per la necessità di definire anche il concetto di accelerazione alla quale allora non veniva assegnata quasi alcuna importanza, sia per la difficoltà di effettuare misure accurate di moti di caduta i quali richiedono la misurazione di tempi piuttosto brevi. Un grande aiuto venne dall’uso del piano inclinato per rallentare il moto, rendendolo così più facilmente osservabile e rendendo trascurabili, se tutto l’apparecchio è ben costruito, gli errori dovuti agli inevitabili attriti e consentendo di adoperare per la misura dei tempi un orologio ad acqua. Una tecnica curiosa che lo scienziato adoperò all’inizio delle sue esperienze per misurare le velocità fu quella di misurare le deformazioni indotte dalla caduta di una pallina di piombo da diverse altezze su di una tavoletta deformabile, per esempio di cera.
La profondità dell’incavo scavato dall’impatto è infatti collegata, anche se in maniera quadratica, alla velocità con cui la pallina è arrivata sul bersaglio e dipende anche dal suo peso. Questo lo portò dapprincipio a formulare l’ipotesi erronea che la velocità della pallina dipendesse linearmente dalla distanza percorsa (invece che dal suo quadrato, come poi scoprì in seguito). Galileo arrivò anche a due altri risultati di importanza fondamentale per la meccanica, ossia egli formulò quello che sarà il primo principio della dinamica newtoniana e che è in aperto contrasto con le ipotesi aristoteliche, che può venire enunciato in termini moderni come: ogni corpo permane nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme rispetto ad un qualunque sistema di riferimento inerziale fintantoché non intervenga qualche causa esterna a modificare tale stato. Il secondo grande contributo è di un’eleganza senza pari e va sotto il nome di principio di relatività galileiana, per il quale una delle diverse possibili forme è l’impossibilità di discriminare attraverso un qualunque esperimento fisico lo stato di moto uniforme di un sistema a meno di non fare riferimento ad un sistema di riferimento esterno. La spiegazione che il nostro scienziato presenta in un celebre passo del Dialogo sopra i Massimi Sistemi è giustamente celebrata come un capolavoro di semplicità e di divulgazione scientifica: “Rinserratevi con qualche amico nella maggior stanza che sia sotto coverta di un gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto in basso: e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto; e voi, gettando all’amico alcuna cosa, non più gagliardamente la dovete gettare verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno eguali; e saltando voi, come si dice, a piè giunti, eguali spazi passerete verso tutte le parti.
Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benchè niun dubbio ci sia che mentre il vassello sta fermo non debbano succeder così, fate muover la nave con quanta si voglia velocità; che (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina o pure stia ferma”. Si badi bene che questo punto è di fondamentale importanza anche nella critica cosmologica del sistema tolemaico in quanto uno dei problemi del sistema copernicano era la mancanza dell’osservazione nel moto terrestre di quegli effetti che intuitivamente sono associati alla velocità. In altre parole, se la terra compie un giro su se stessa ogni 24 ore, perché non vi sono dei venti di incredibile potenza e gli uccelli possono librarsi in volo senza problemi? Il principio di relatività galileiana, da cui tra l’altro si possono ottenere delle semplici formule utili per descrivere le leggi di composizione dei moti e delle velocità, è un punto di importanza primaria proprio per evidenziare l’infondatezza di tali argomentazioni, data anche la possibilità di confondere almeno in piccola scala il moto circolare uniforme della terra con la tangente rettilinea. Si badi bene che proprio l’idea che sta nel cuore del principio di relatività galileiana venne estesa ad una classe più ampia di fenomeni da Albert Einstein nella formulazione delle teorie della relatività ristretta (1905) e generale (1916). Il Saggiatore,
Il Dialogo sopra i Massimi Sistemi e la definitiva sconfitta La situazione di silenzio a cui era costretto dalle ammonizioni del cardinal Bellarmino non venne sopportata a lungo dal carattere dello scienziato anticonformista e profondamente convinto dell’erroneità delle posizioni ufficiali tolemaiche. Con la morte, nel 1621, del cardinale e l’ascesa al soglio pontificio di Maffeo Barberini con il nome di Urbano VIII nel 1623, la situazione sembra diventare più propizia per lo scienziato il quale pubblica nell’ottobre dello stesso anno, dedicandolo proprio al nuovo Papa, Il Saggiatore, un testo fondamentale in cui, con il pretesto di controbattere ad argomentazioni sulla natura delle comete, egli esponeva una vera e propria “teoria della conoscenza”. Uno dei punti più importanti era la raggiunta consapevolezza della grande complessità della natura: egli ammise candidamente di non sapere “precisamente determinar la maniera della produzzion della cometa”, ma di non ritenere questo affatto strano, in quanto fenomeni di tal fatta potevano prodursi in modo completamente al di fuori della nostra immaginazione.
Questa è, se si vuole, un modo di pensare simile per certi aspetti al “non sapere” socratico ed è uno dei principali punti fermi della cultura scientifica; una legge scientifica non è per sua natura né sicura, né può venire dimostrata in alcun modo come accade invece per un teorema matematico; semplicemente essa si adatta ai dati sperimentali e nessuno sa il perché; ecco che il dubbio acquista dunque un gran valore nell’indagine. Rappresentazioni del sistema tolemaico (a sinistra, in un'immagine tratta da in Atlas Coelestis seu Harmonia Macrocosmica Amsterdam, 1661) e del sistema copernicano (a destra, in un'incisione di Thomas Diggers del 1576). Sempre ne Il Saggiatore erano analizzati i rapporti che dovevano intercorrere tra l’osservazione compiuta dai sensi e le indicazioni oggettive necessarie alla costruzione di un solido insieme di leggi matematiche; invece di una concezione dell’universo concepita in termini aristotelici come “grandezze, figure, moltitudini, movimenti tardi o veloci”, egli proponeva la scienza come cammino verso la verità in quanto in grado di fornire indicazioni oggettive e quindi direttamente confrontabili con il mondo reale. Infine egli precisava il ruolo della matematica nella conoscenza della natura: “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intendere umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto”; si confrontino le parole di Galileo con quelle scritte nel XX secolo da Feynman: “Per quelli che non conoscono la matematica è difficile arrivare al vero apprezzamento della bellezza, la grandissima bellezza della natura. […] Se volete conoscere e apprezzare la natura è necessario capire la lingua che parla.”.
Peraltro, in questo periodo -di salute malferma per Galileo-, sembra che a Roma vi fosse una maggiore indulgenza verso lo scienziato ed egli credette, a torto come vedremo, di esser sufficientemente al sicuro da poter ritornare a parlare in maniera decisa delle ipotesi copernicane in una nuova opera che pubblicò nel 1632, ossia il Dialogo sopra i Massimi Sistemi, del quale l’autore aveva dichiarato come imminente la pubblicazione molti anni prima nel Sidereus Nuncius. Il Dialogo è forse una delle opere più importanti di Galileo ed occupa anche un considerevole rilievo nella storia della letteratura italiana del periodo; esso è articolato in quattro “giornate” in cui si intrecciano le discussioni intorno alla natura di tre studiosi: Simplicio, che riporta le ipotesi dei filosofi in libris aristotelici, Sagredo che è un giovane di acuto intelletto e ben disposto ad ascoltare ed argomentare senza costrizioni intellettuali e Salviati il quale è nel libro la vera voce di Galileo. I temi trattati sono svariati e spaziano dal moto, all’astronomia e, nella quarta giornata, al fenomeno delle maree; per quanto riguarda il moto viene enunciato (come citato in precedenza) il principio di relatività e viene presentata la legge di caduta dei corpi, a cui è applicato l’artificio matematico della composizione dei moti per spiegare il moto di un proiettile. Per quanto concerne l’astronomia, le ipotesi copernicane sono difese a spada tratta e si indugia su questioni come la corruttibilità della Luna, la natura dei suoi rilievi ecc… Ma il Dialogo era un riassunto di un po’ tutte le concezioni e le idee del nostro scienziato il quale peraltro non mancava di lanciar strali ai peripatetici con la sua ironia acuta; in sé, il libro è un’opera eccellente di divulgazione scientifica e presenta tuttora una grande attualità, anche se alcune delle posizioni galileiane si sono rivelate parzialmente errate, come la spiegazione del moto delle maree. In essa sono presenti principi fondamentali e nuovi che avrebbero posto le basi di un nuovo sapere organizzato in maniera ben diversa dalle posizioni di Aristotele; in esso è presente l’idea di una descrizione unificata della natura per mezzo di semplici leggi accessibili all’uomo; si pensi che lo scrittore mostra più volte di avere inteso che la forza che costringe una pietra a cadere in terra è la stessa che costringe i pianeti a muoversi in cerchio nelle loro orbite, anticipando così in maniera fondamentale le intuizioni di Newton. L’opera fu però corredata da un’introduzione “al discreto lettore” la quale precisava che le posizioni copernicane sostenute da Salviati non erano altro che “pura ipotesi matematica” senza alcuna pretesa di verità: lo scienziato fu dunque costretto, per prudenza, non certo per intima convinzione, a trasferire le sue ipotesi dal campo del reale a quello del possibile, facendo così in qualche modo un’eco alla prefazione di Osiander al libro di Copernico.
Leggendo il libro tuttavia, risulta evidente che le parole di Salviati sono ben altro che finzione scenica e non mancano di mordente nei confronti della filosofia “in libris”. In realtà Galileo prese nuovamente sottogamba le critiche nei suoi confronti e la reazione delle autorità ecclesiastiche si fece sentire in maniera decisa quasi subito dopo la pubblicazione del libro, il quale era comunque stato approvato dalla censura; in particolare fu proprio il Papa Urbano VIII a prendere posizione. Nella chiusura del libro infatti veniva esposta per bocca di Simplicio (che per il resto costituiva il bersaglio della polemica) la dottrina esposta personalmente dal Papa allo scienziato secondo la quale Dio nella propria potenza può mostrare i fenomeni osservabili in una infinità di modi diversi e dunque l’osservazione di eventi non può condurre in alcun modo alla verità. La reazione fu molto dura, il Papa era accusato da molti di essere troppo liberale sul piano culturale (siamo sempre in periodo di controriforma) e scelse Galileo come capro espiatorio anche per ottenere qualche beneficio nella difficile situazione politica internazionale che interessava lo Stato pontificio in quel periodo, con un’agricoltura ed un progresso quasi strozzati. Una suggestiva vista di Giove con i quattro satelliti Galileiani; da sinistra si vedono Callisto, Io, Europa, Ganimede. Nell’ottobre del 1632 lo scienziato, il quale era ormai sessantottenne ed attraversava un periodo di cattiva salute, ricevette l’ordine di presentarsi entro trenta giorni a Roma presso il Commissario dell’Inquisizione; egli non poteva venire accusato per la pubblicazione del Dialogo, in quanto questo era stato comunque approvato dalla censura, ma poteva venire colpito per non avere rispettato l’ordine del cardinal Bellarmino del 1616 che gli impediva di sostenere in alcun modo l’ipotesi copernicana. Il problema non era di poco conto anche perché l’ingiunzione del 1616 non gli avrebbe impedito di trattare la questione copernicana come “semplice ipotesi matematica” e Galileo fu durante alcuni interrogatori preso alle strette proprio su questo punto. Il fatto è che il Dialogo è a dispetto dell’introduzione interamente volto a smontare la dottrina tolemaica e lo scienziato fu costretto ad ammettere, di fronte alla Santa Congregazione, che la lettura del testo avrebbe potuto in effetti trarre in inganno i lettori, convincendoli della verità delle ipotesi copernicane.
La linea di difesa fu quella di provare la buona fede e manifestare la disponibilità nel correggere il testo nei punti che gli inquisitori avrebbero ritenuti opportuni, tenendo conto inoltre dell’età avanzata dello studioso il quale avrebbe commesso tali “delitti” anche a causa della “cadente vecchiezza” L' accusa tornò nuovamente alla carica poco più di un mese dopo chiedendo a Galileo di confessare la propria fede in Copernico e di dire la verità, oppure si sarebbe passati alla tortura; la sentenza fu pronunciata il 22 giugno 1632 in Santa Maria della Minerva, in cui fu comunicato all’accusato di essere “vehementemente sospetto d’heresia” e soggetto dunque alle pene conseguenti. Il Dialogo fu proibito e lo scienziato fu condannato al carcere e fu costretto a pronunciare la famosa abiura, di cui ecco la parte terminale: “Con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori et heresie e generalmente ogni et qualunque altro errore, heresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose per le quali si possa haver di me simil sospitione; ma se conoscerò alcun heretico o che sia sospetto d’heresia, lo denontiarò a questo S. Offizio ovvero all’Inquisitore o Ordinario del luogo dove mi trovarò. Giuro anco e prometto di adempire et osservare intieremente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Offizio imposte; e contravvenendo ad alcuna delle mie promesse e giuramenti, che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri canoni et altre costitutioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Così Dio m’aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani.”. Lo scienziato venne dapprima trasferito a Siena, sotto la custodia dell’arcivescovo Piccolomini (a lui amico), e pochi mesi più tardi si permise che si trasferisse ad Arcetri, in isolamento. Anche se in condizioni di sorveglianza, Galileo riuscì a pubblicare nel a Leida i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze nel 1638, anno in cui perdette completamente la vista, ed in esso erano esposte in forma piuttosto tecnica e meno divulgativa rispetto al Dialogo concetti inerenti la fisica del moto e la resistenza dei materiali. Gli ultimi anni di vita fino alla morte avvenuta l’8 gennaio del 1642 furono amari a causa della cecità e della sconfitta intellettuale inflittagli dalla Chiesa, ma egli poté nondimeno avere attorno alcuni allievi, fra cui meritano di essere ricordati Vincenzo Viviani che andò a vivere con lo scienziato a partire dal 1639 ed Evangelista Torricelli che venne ospitato a partire dell’autunno del 1641; un lutto gravissimo fu quello provocato dalla morte della figlia Virginia, suor Maria Celeste il 2 aprile 1634 nel convento di S. Matteo ad Arcetri. La perdita della figlia fu molto grave in quanto ella rappresentò per lo scienziato un grande conforto soprattutto nel difficile periodo del processo. La proibizione di trattare questioni intorno al moto della terra non fu revocata fino al 1757.
Perché le teorie galileiane sono teorie scientifiche? Abbiamo parlato delle ipotesi aristoteliche ed abbiamo visto come esse, in un certo modo, si accordassero alla descrizione qualitativa dei fenomeni naturali così come percepibili dai nostri sensi, in contrapposizione alla descrizione astratta e quantitativa fornita da Galileo; ci possiamo dunque porre la sensata questione del perché le teorie galileiane siano preferibili rispetto alle vecchie supposizioni aristoteliche le quali pure appaiono a prima vista così ragionevoli. La risposta è che il valore di una teoria scientifica è quello di poter formulare delle predizioni, anche se queste sono sempre ed inevitabilmente affette da errori (la stima dei quali costituisce un campo fondamentale per conoscere la qualità della predizione stessa). Non serve a nulla una teoria la quale di fronte ad un fenomeno già avvenuto ne spieghi con dovizia di particolari il perché è avvenuto proprio in quel modo. Questo è quanto accade per esempio nei sistemi applicati al gioco del lotto, i quali si basano sulla teoria dei ritardi la quale è un perfetto esempio di spiegazione a posteriori e di calcolo delle probabilità mal digerito; di lavoro scientifico la teoria dei ritardi possiede solo la forma esteriore e magari i termini, usati più per impressionare chi non è preparato sull’argomento, senza cogliere in alcun modo la sostanza del ragionamento scientifico, senza la quale i calcoli ed i paroloni non hanno alcuna ragione di esistere. Beninteso, una teoria predittiva valida deve essere in grado di descrivere con sufficiente precisione (si badi bene, descrivere, non spiegare!) anche le esperienze avvenute. Si capisce dunque così perché le argomentazioni dei filosofi che commentavano Aristotele al tempo di Galileo non potevano stare in piedi; le loro spiegazioni diventano involute e contorte nel momento in cui i fenomeni non sono più banali, ed esse fanno ricorso ad un gran numero di ipotesi aggiuntive non verificabili circa la natura dei corpi coinvolti. Può apparire una grande pecca l’impossibilità della scienza attuale nello spiegare il perché dei fenomeni, ma solo il come, ma dobbiamo ammettere sinceramente che questo è quanto di meglio siamo stati in grado di fare lungo il corso di trecentocinquant’anni di scienza; questa è stata una strada fertile che non minaccia finora di incontrare un vicolo cieco; se un domani si riuscirà ad andare oltre la descrizione quantitativa dei fenomeni, tanto meglio, ma per adesso conviene che ci atteniamo a quanto affermato da L. Wittgenstein nel 1918 all’interno del suo Tractatus Logico-Philosophicus “Ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”.
Ma c’è un altro punto, più sottile, che è stato messo in luce da uno delle grandi menti del pensiero filosofico del XX secolo, K. R. Popper, ossia che una teoria scientifica è falsificabile; questo vuole dire che una conclusione scientifica non può essere mai provata del tutto come vera, ma basta un’unica prova contraria per dimostrarla falsa. Un ritratto di Galileo conservato all'Accademia dei Lincei Una legge fisica non può mai essere controllata con sicurezza; possiamo vagliare risultati di decine di migliaia di esperimenti condotti in condizioni sempre differenti che sembrano confermare la nostra legge, ma chi ci dice che non esista almeno una condizione in cui essa non è verificata? La falsificazione di una teoria, ossia il dimostrare che essa non è valida per spiegare un evento sperimentale non è un processo distruttivo, ma è un grande passo in avanti nella ricerca di una teoria più generale la quale risulti valida anche per le situazioni in cui le vecchie supposizioni erano in difficoltà.
La vecchia teoria entra a far parte di una nuova più generale che la ingloba come caso particolare, così come la relatività galileiana è un caso particolare della relatività speciale einsteniana del 1905 e quest’ultima sia nuovamente un caso particolare della relatività generale del 1916. Ecco alcune righe di Popper sull’argomento: “La risposta appropriata alla mia domanda è, a mio avviso, la seguente: ”. Bibliografia Il lettore interessato a Galileo può trovare nella letteratura centinaia di opere di alta qualità dedicategli; qui sono riportate le opere a cui ho fatto riferimento per la stesura del presente testo ed a cui sono presenti frequenti riferimenti. [Bellone] Galileo: le opere e i giorni di una mente inquieta di Enrico Bellone edito nella collana “I grandi della scienza” anno 1, n.1 da Le Scienze, Milano, febbraio 1998.
[Geymonat] Galileo Galilei di Ludovico Geymonat, Einaudi, Torino 1957
[Galilei] Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo di Galileo Galilei, a cura di Libero Sosio, Einaudi, Torino 1970
[Einstein] L’evoluzione della fisica: dai concetti iniziali alla relatività e ai quanti di A. Einstein e L. Infeld, Bollati Boringhieri Torino 1965; titolo originale: The Evolution of Physics, The Growth from Early Concepts to Relativity and Quanta 1938
[Feynman1] The Feynman Lectures on Physics vol. I, Richard P. Feynman, Robert B. Leighton, Mattew Sands, Addison-Wesley, Reading, Massachussetts 1965
[Feynman2] La legge fisica di Richard P. Feynman, Bollati Boringhieri, Torino 1971 rist. 1998; titolo originale: The Character of Physical Law, British Broadcasting Corporation, London 1965
[Rossi] Storia della scienza moderna e contemporanea; volume 1: Dalla rivoluzione scientifica all’età dei lumi, tomo 1, a cura di P. Rossi, Tascabili degli Editori Associati S.p.A. © 1988-1998 UTET
[Popper] La scienza e i suoi nemici di Karl R. Popper, Armando Editore, Roma 2000
[Gamow] Biografia della fisica di George Gamow, Oscar Saggi Mondadori, settembre 1988; titolo originale: Biography of Physics, Harper Modern Science Series edited by James Newman, 1961
[Segrè] Personaggi e scoperte della fisica di Emilio Segrè, Oscar Saggi Mondadori
[Hoyle] L’astronomia di Fred Hoyle, Sansoni, Firenze 1963, titolo originale Astronomy, Rathbone Books Limited, London 1962
[Koyré] Etudes galiléennes, Hermann 1966 Paris, nouveau tirage 2001