di Davide Meloni

Quello che sembrava un semplice artificio matematico usato per riconciliare i dati sperimentali con la teoria, presto prese una forma molto più solida grazie alla spiegazione dell'effetto fotoelettrico data da Einstein. Il fenomeno consiste nell'emissione di elettroni da parte di una lastra di metallo sottoposta ad irraggiamento elettromagnetico (Figura 2).

Effetto fotoelettrico
Fig. 2 Effetto fotoelettrico

In base alla teoria classica, un elettrone puo' sempre essere emesso a patto di attendere un tempo sufficientemente lungo per dar modo alla radiazione di “trasferirsi” cospicuamente all'elettrone fino al raggiungimento dell'energia necessaria per liberarsi dal reticolo cristallino nel quale sono immersi. Esperimenti condotti in tal senso, però, mostrarono che, al di sotto di una certa frequenza per la radiazione incidente sulla lastra, nessun elettrone veniva liberato, per quanto grande fosse il tempo a cui veniva sottoposta la lastra metallica. Al di sopra di tale frequenza limite, invece, l'emissione di elettroni avveniva istantaneamente, ossia senza dover attendere un tempo più o meno lungo; il tempo di esposizione influenzava solamente la quantità di elettroni emessi. C'è un altro punto relativo all'effetto fotoelettrico che non trovava spiegazione nella teoria classica. L'energia cinetica con cui questi venivano emessi è data dalla ben nota formula Ec= ½ m v2 ed era dato per assodato che maggiore fosse l'intensità dell'onda elettromagnetica incidente sulla lastra e maggiore sarebbe stata l'energia cinetica. Si mostrò, invece, che Ec dipendeva ancora una volta dalla frequenza dell'onda e non dalla sua intensità. Quindi si avevano due risultati sperimentali che contraddicevano le previsioni teoriche:

1. gli elettroni sono liberati solo per onde incidenti di una certa frequenza;

2. la loro energia cinetica è proporzionale a tale frequenza.

La risoluzione al problema data da Einstein riesumava l'ipotesi del quanto di Planck, estendendola a tutti i fenomeni che coinvolgessero le onde elettromagnetiche e non solo al problema del corpo nero. Di nuovo, si trattava di affermare che l'energia trasportata dalle onde esiste solo in forma di pacchetti, i già sopra definiti fotoni; questi trasportano energia E=h ν che possono cedere ad un solo elettrone alla volta; se questa energia è sufficiente, ovvero se la frequenza del quanto di luce è quella appropriata, allora l'elettrone viene emesso istantaneamente, con una energia cinetica che necessariamente dipenderà da quanta energia è stata loro ceduta, ossia dalla frequenza della radiazione incidente (una parte dell'energia del fotone va comunque usata per estrarre l'elettrone dal materiale). Se invece l'energia è troppo bassa, allora l'elettrone che la assorbe non puo' divincolarsi dall'ambiente circostante e rimane incollato agli atomi del reticolo cristallino.

Effetto Compton, immagine tratta da Luce Virtuale
Fig. 3 Apparato sperimentale per l'effetto Compton.
Figura tratta da Luce Virtuale

Va inoltre aggiunto che, dato che ogni fotone interagisce con un solo elettrone, aumentare l'intensità dell'onda vuol anche dire aumentare il numero di fotoni che cedono energia e quindi il numero di elettroni emessi. La loro energia rimane sempre proporzionale alla frequenza dell'onda incidente ma il loro numero è più cospicuo. Pertanto, con la sola assunzione della quantizzazione dell'energia, si riuscì a spiegare entrambi i misteriosi fenomeni sperimentali. A sostegno dell'ipotesi che la radiazione elettromagnetica fosse composta da fotoni intervennero nuovi risultati sperimentali relativi al cosiddetto effetto Compton, dal nome dello scienziato che propose e realizzò l'esperimento. In pratica si trattava di far incidere della radiazione di alta frequenza, raggi X nella fattispecie, sulla grafite ed andare a misurare la lunghezza d'onda della radiazione emessa in funzione dell'angolo di emissione, come mostrato in Fig.3. Il risultato dell'esperimento mostrò che tale frequenza era sempre minore di quella iniziale ed il valore preciso dipendeva dall'angolo al quale si effettuava la misura. Compton si rese conto che, trattando i raggi X come costituiti di particelle di energia E si riusciva a spiegare la questione semplicemente in termini di urti elastici: una parte dell'energia posseduta dai fotoni incidenti veniva ceduta al bersaglio ed i fotoni uscenti ad un certo angolo rimanevano con una energia E' inferiore ad E.