Ludwig Boltzmann
di Paolo Gamgemi - Studente Master 2005 in comunicazione della scienza della SISSA
Era figlio del suo tempo, Boltzmann: dal positivismo ottocentesco aveva ereditato la fiducia nella scienza, e in particolare nella meccanica, per spiegare i fenomeni naturali. Dalla Vienna asburgica dove era nato aveva invece preso, oltre al rigore scientifico, anche l’inquietudine esistenziale che lo accompagnò tutta la vita.
Per applicare la meccanica al mondo microscopico, gettò le basi della meccanica statistica; in particolare, ricavò dalla meccanica il secondo principio della termodinamica, interpretando l’entropia da un punto di vista probabilistico: teoricamente non è impossibile che il calore passi da un corpo più freddo a uno più caldo. È smisuratamente improbabile ma non impossibile, così come in linea di principio non si può escludere che il vento metta in ordine i fogli lasciati sparsi sulla scrivania, anche se è talmente improbabile da risultare in pratica impossibile.
Sono molti i settori della fisica, dalla termodinamica all’elettromagnetismo, di cui Boltzmann si occupò con notevoli risultati, come testimoniano per esempio la costante che porta il suo nome e la legge di Stefan-Boltzmann.
Ma il suo posto nella storia della fisica rimane fondamentale anche per un altro motivo: portò avanti le sue teorie anche in assenza di prove pratiche immediate, contrapponendo alle idee, predominanti, di Mach, quella che poi sarebbe stata la concezione moderna della fisica teorica, secondo cui è consentito, e anzi utile, formulare ipotesi estranee alle esperienze sensoriali e all’evidenza sperimentale. Gran parte della fisica del ’900 si basa su questa filosofia, grazie alla quale particelle come positroni e neutrini sono state ipotizzate prima della loro scoperta, per non parlare della teoria delle stringhe. Come questa ancora aspetta una dimostrazione pratica, così anche per le sue teorie le prove sarebbero arrivate dopo.
Se la cattiva salute e gli attacchi dei colleghi non avessero peggiorato la sua depressione, forse quel giorno del 1906, a Duino, il sessantaduenne Ludwig Boltzmann non si sarebbe suicidato, e qualche anno dopo avrebbe potuto vedere le sue teorie accettate da tutti: quello che Claudio Magris definisce ossimoricamente “un tragico trionfo della meccanica” sarebbe stato meno tragico e più trionfale.