a cura di Anna Maragno
«Viene il vento recando il suon dell'ora»1
Ore, minuti, secondi
Dopo esserci occupati dei concetti di mese, di settimana e di giorno, è il momento di volgere l’attenzione all’elaborazione teorica delle nozioni di ora, di minuto e di secondo lungo il corso della Storia, fino ai giorni nostri.
Figura 1. Gaetano Previati, La danza delle Ore, olio e tempera su tela, 1899, 134 cm x 200 cm, Collezioni d'arte della Fondazione Cariplo, Gallerie d'Italia di Piazza della Scala, Milano. Annoverato tra i capolavori di Gaetano Previati (1852-1920), il dipinto fu ispirato, con molta probabilità, dall'omonimo ballabile nel terzo atto del melodramma La Gioconda (musica di Amilcare Ponchielli, libretto di Antonio Boito).
L'ora secondo gli antichi
La suddivisione del dì e della notte in 12 parti ciascuno è di probabile origine caldea. Al numero 12 erano attribuiti, presso tale civiltà, specifici significati religiosi.
I Greci dell’età arcaica non definivano con precisione le diverse parti del giorno. Soltanto in seguito essi adottarono la divisione in 12 parti per il dì e in 12 per la notte, di durata variabile a seconda delle stagioni (come vedremo meglio tra poco).
Presso i Romani, il dì era diviso in 12 horae (ore), dall’alba al tramonto. La notte era, invece, ripartita in 4 vigiliae, corrispondenti ai turni di guardia, di 3 horae ciascuna.
Si può offrire una comparazione con l’attuale sistema orario considerando, per comodità, un giorno vicino agli equinozi. Infatti, i Romani frazionavano l’arco diurno e il notturno sempre in 12 ore ed era, dunque, inevitabile che, durante l’anno, le ore diurne e notturne avessero ineguale durata. Dato che il periodo di luce in un giorno d’estate è molto lungo, la ripartizione di quel tempo in 12 intervalli portava ad avere ore diurne di ampia durata. Al contrario di quanto accadeva in un giorno invernale: in questo caso il dì (periodo di luce) era suddiviso in 12 ore che risultavano, necessariamente, più brevi di quelle estive. In altre parole, le ore diurne erano più lunghe d’estate e più corte d’inverno. Alla latitudine di Roma, ad esempio, l’ora diurna estiva giungeva a durare una volta e mezzo l’ora invernale. Solo agli equinozi l’ora romana durava all’incirca quanto un’ora attuale, poiché in quei giorni la durata del dì e quella della notte sono equivalenti e coincidono con le 12 ore moderne. Ecco, quindi, perché è più semplice riferirsi a un giorno prossimo agli equinozi per il seguente schema:
Horae |
|
06:00 - 07:00 |
hora prima diei |
07:00 - 08:00 |
hora secunda diei |
08:00 - 09:00 |
hora tertia diei |
09:00 - 10:00 |
hora quarta diei |
10:00 - 11:00 |
hora quinta diei |
11:00 - 12:00 |
hora sexta diei |
12:00 - 13:00 |
hora septima diei |
13:00 - 14:00 |
hora octava diei |
14:00 - 15:00 |
hora nona diei |
15:00 - 16:00 |
hora decima diei |
16:00 - 17:00 |
hora undecima diei |
17:00 - 18:00 |
hora duodecima diei |
Vigiliae |
|
18:00 - 21:00 |
prima vigilia noctis |
21:00 - 00:00 |
secunda vigilia noctis |
00:00 - 03:00 |
tertia vigilia noctis |
03:00 - 06:00 |
quarta vigilia noctis |
Esempi di tali misure si leggono nel Nuovo Testamento. Gesù, nel Vangelo di Giovanni, afferma: «Non sono forse 12 le ore in un giorno?» (Gv 11, 9). Nel Vangelo di Marco è specificato, invece, che le tenebre ricoprono la terra da mezzogiorno fino alle 3 del pomeriggio, durante la crocifissione di Gesù: «Compiuta l’ora sesta, si fece buio su tutta la terra fino all’ora nona» (Mc 15, 33).
Si parlava, inoltre, di ante meridiem per indicare il periodo del giorno che precede il mezzogiorno e di post meridiem per quello che segue (vi è ancora traccia dell’uso nella nostra parola “pomeriggio”). Altre espressioni erano sub lucem (all’apparire della luce), sub occasum solis (al tramonto), intempesta nox (notte fonda), gallicinium (al canto del gallo all’alba) e hora suprema (l’ultima parte del dì, vicina al tramonto del Sole).
Le ore canoniche
Il Medioevo mantenne sostanzialmente la struttura romana, con poche modifiche. Molto diffusa era la scansione temporale utilizzata dalla Chiesa cattolica per i propri uffici, conosciuta con il nome di ore canoniche: vigiliae o mattutino (celebrate in un tempo variabile dopo la mezzanotte ma sempre prima dell’alba); laudes (all’alba); hora prima; hora tertia; hora sexta; hora nona; vespera (al tramonto); ad completorium (in volgare compieta, prima del riposo notturno).2
Figura 2. Orologio solare a ore canoniche presso il Santuario de Santa Maria de Lluc, monastero situato a Escorca, a Maiorca. Il quadrante è parte di una serie di orologi solari collocati su un’unica pietra, datata 1991: ciascuno di questi segna il tempo secondo diversi sistemi di conteggio delle ore, tra cui, appunto, le ore canoniche.
Credits: https://de.wikipedia.org/wiki/Datei:Lluc_Sonnenuhr_03.JPG
Le ore italiche
Tra il XIII e il XIV secolo, nella nostra penisola, in Boemia, in Slesia e in parte della Polonia, si impose la così detta ora italica. In base a tale sistema orario, il giorno era suddiviso in 24 ore della stessa durata, contate a partire dal tramonto, ossia dal momento in cui le campane suonavano l’Ave Maria: in quell’istante (vale a dire, alla ventiquattresima ora) cominciava il nuovo giorno.
Poiché il tramonto avviene in momenti diversi durante l’anno, l’inizio del nuovo giorno, nel sistema a ore italiche, cambiava a seconda delle stagioni.
Nella successiva variante chiamata ora italica da campanile, per ragioni storiche non ancora del tutto chiarite, si impose la consuetudine di suonare le campane dell’Ave Maria mezz’ora dopo il tramonto del Sole. Secondo questo sistema orario, il Sole calava, dunque, alle 23:30 e le campane dell’Ave Maria salutavano il nuovo giorno mezz’ora dopo (allo scoccare della ventiquattresima ora).
L’abitudine di collocare la ventiquattresima ora al tramonto del Sole (o, nella variante italica da campanile, mezz’ora dopo) appare ormai lontana da noi. Ma l’ampia diffusione del sistema delle ore italiche riecheggia in celebri pagine della letteratura e persino in modi di dire ancora attuali, per tacere degli orologi solari e meccanici tutt’oggi visibili su torri e campanili.
Un ricordo dell’ora italica si cela, assai probabilmente, nel modo di dire «portare il cappello sulle ventitré», vale a dire molto inclinato da una parte. Secondo una delle interpretazioni più accreditate, il detto potrebbe risalire proprio ai tempi dell’ora italica, quando la ventitreesima ora corrispondeva a quella in cui il Sole stava ormai per tramontare. Allora il Sole, già basso sull’orizzonte, gettava raggi obliqui e, per ripararsi da una luce tanto inclinata, il cappello era accomodato su un lato della testa.
Possiamo altresì riportare alcune parole dal Viaggio in Italia di Johann Wolfgang von Goethe (1749 - 1832), con cui lo scrittore tedesco ben descrive l’uso dell’ora italica: «Qui per contro, quando scende la notte è finito il giorno, il quale consta del mattino, e della sera; suonarono le ventiquattro, si comincia una nuova numerazione delle ore; suonano le campane, si recita il rosario, la fantesca entra nella stanza colla lampada accesa, e vi augura la felicissima notte!» (Verona, 16 settembre 1786).
Un’altra testimonianza si rintraccia nei versi 20-21 della poesia Il sabato del villaggio di Giacomo Leopardi (1798 - 1837):
Or la squilla dà segno
della festa che viene
È ormai giunta la sera in paese e la campana (squilla) della sera, suonando, annuncia (dà segno) l’inizio della domenica (della festa che viene).
Le ore francesi
L’ora alla francese od ora ultramontana, il sistema orario tuttora in uso, si diffuse all’epoca delle invasioni napoleoniche in tutta l’Europa, Italia compresa. Il modello conobbe successivi perfezionamenti, ma le caratteristiche fondamentali rimasero le medesime:
a) il giorno è diviso in 24 ore di identica durata (60 minuti);
b) le ore 12 sono collocate a mezzogiorno e, dunque, il giorno si conclude 12 ore dopo, alla mezzanotte (ore 24).
Inizialmente le ore 12 coincidevano con il mezzogiorno vero locale, ossia con il momento della massima altezza del Sole sull’orizzonte di un determinato luogo. In altre parole, il punto di riferimento era il meridiano locale, che consentiva di collocare il mezzogiorno (ore 12) esattamente in coincidenza della massima altezza del Sole sull’orizzonte in quel preciso luogo. Ne consegue che solo gli orologi allineati su uno stesso meridiano segnano il mezzogiorno vero locale nel medesimo istante. Nel suo moto apparente da est verso ovest, il Sole raggiunge prima il culmine in un luogo collocato più ad oriente: è a tutti noto che, ad esempio, a Trieste è mezzogiorno vero locale parecchi minuti in anticipo rispetto a Torino.
Il riferimento al meridiano locale creava, naturalmente, disomogeneità e confusione nella vita civile. Per mettere ordine, nel 1866 si impose, con Regio Decreto, il tempo medio del meridiano di Roma per tutta l’Italia, a eccezione di Sicilia e Sardegna. Dal 1893, ancora per decisione del Re, il riferimento è il tempo medio dell’Europa Centrale (coincidente con il nostro fuso orario, corrispondente al 15° meridiano Est, passante per la città di Termoli).
Figura 3. Il Regio Decreto N. 3224 (22 settembre 1866) dispone di fissare il tempo medio del meridiano di Roma per tutto il Regno d’Italia. È stata consultata la Raccolta Ufficiale delle Leggi e dei Decreti del Regno d’Italia, Anno 1866, Dal N° 2754 al 3487ter., Volume Decimosesto, Torino, pp. 1822-1823.
Le ore italiche furono, dunque, soppiantate da quelle francesi, ma la transizione non fu immediata. Innumerevoli orologi solari e meccanici da torre (di cui avremo modo di parlare nelle prossime tappe del nostro viaggio) riportano ancora, sui loro quadranti, sia l’ora italica, sia quella francese.
Figura 4. Il campanile secentesco della Chiesa di Santa Sofia (XVI secolo), ad Anacapri, paese nell’isola di Capri, in Campania. Nel primo Seicento fu inaugurato l’orologio ad ore italiche con quadrante maiolicato a 6 ore (a destra). Le lancette percorrevano, quindi, 4 volte il quadrante nel corso di un giorno. Nel 1920 fu aggiunto un orologio moderno a 12 ore (a sinistra).
Credits: Pere Garcia, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Pgr_Anacapri_Santa_Sofia_o6o.jpg
Nell’ottobre 1884 si tenne, a Washington, la Conferenza Internazionale dei Meridiani. Tra le molte risoluzioni, fu approvata l’adozione del giorno solare medio, della durata di 24 ore e con inizio alla mezzanotte. Come si è detto, dunque, per tutti gli usi civili il giorno iniziava alla mezzanotte (ore 24). Non così in ambito astronomico: gli studiosi decisero solo nel 1925, in occasione della II Conferenza generale dell’Unione Astronomica Internazionale, che l’inizio del giorno solare medio fosse fissato alla mezzanotte, sostituendo la convenzione (in uso dalla seconda metà dell’Ottocento) di indicare l’inizio del nuovo giorno astronomico a mezzogiorno.
Durante la Prima Guerra Mondiale, il risparmio energetico, in termini di illuminazione elettrica, divenne una necessità. Fu così che, nel 1916, il Regno Unito adottò il British Summer Time, ovvero lo spostamento delle lancette di un’ora in avanti durante i mesi estivi. Dopo un utilizzo discontinuo negli anni dei due conflitti mondiali e in quelli immediatamente successivi, in Italia l’ora legale è adottata in forma stabile dal 1966.
I minuti e i secondi
La partizione dell’ora in 60 minuti e del minuto in 60 secondi fu applicata già dai popoli mesopotamici. Nel II secolo a.C., l’astronomo greco Ipparco introdusse in Grecia tale sistema, che nei secoli successivi si impose in tutta Europa, in uno con la circolazione delle opere di Tolomeo (vissuto nel II secolo d.C.). Divenne così il metodo comunemente accettato per suddividere l’ora.
Ai tempi della Rivoluzione Francese, quando il vento dell’Illuminismo spazzò via tante vetuste unità di misura per promuovere un sistema di misurazione valido per tutti, il secondo fu definito, dopo non poche discussioni, come 1/86.400 del giorno solare medio. Alla metà del XX secolo, tale riferimento era ormai considerato poco preciso. Così, nel 1956, fu stabilito dal Comitato Internazionale dei Pesi e delle Misure che il secondo fosse la frazione 1/31.556.925,9747 della lunghezza dell’anno solare 1900. Tuttavia, a seguito di ulteriori studi e dibattiti, nel 1967 si pervenne a stabilire che il secondo (con simbolo "s"), unità di misura degli intervalli di tempo nel Sistema Internazionale delle Unità di Misura, fosse definibile come la durata di 9.192.631.770 oscillazioni della radiazione emessa dall’atomo di cesio 133Cs allo stato fondamentale imperturbato, nella transizione tra due determinati livelli iperfini.
Tale definizione è stata confermata dalla 26° Conferenza Generale dei Pesi e delle Misure (Versailles, 13-16 novembre 2018), nell’ambito della revisione del Sistema Internazionale delle Unità di Misura.3
Note
1. G. Leopardi, Le rimembranze, 1829, v. 50.
2. Questa modalità di misurazione delle ore del giorno si ritrova anche nel romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco (1932 - 2016), pubblicato nel 1980.
3. Il testo della Résolution 1 de la 26e CGPM (2018) recita infatti: «La fréquence de la transition hyperfine de l’état fondamental de l’atome de césium 133 non perturbé, ΔνCs, est égale à 9.192.631.770 Hz, […] où les unités hertz, […], qui ont respectivement pour symbole Hz, […], sont reliées aux unités seconde […]».
Bibliografia
Richards, E. G., Mapping Time. The Calendar and its History, Oxford University Press, Oxford, 1998
Schneider, É., Les heures bénédictines, Grasset, Paris, 1925
Whitrow, G. J., Time in History. Views of Time from Prehistory to the Present Day, Oxford University Press, Oxford, New York, 1988
Dominici, P., Marcelli, L., Evoluzione storica delle misure orarie in Italia. Suoi riflessi nello studio dei fenomeni geofisici storici, e in particolare nelle catalogazioni di eventi sismici, in «Annali di Geofisica» 32, fasc. 1 (1979), pp. 131-212