a cura di Anna Maragno

«Oggetto da distruggere» o «Oggetto indistruttibile»1

Misurare il tempo nella musica: il metronomo

Dopo esserci occupati di unità di misura e di strumenti per la misurazione del tempo, a conclusione del nostro percorso rivolgiamo l’attenzione allo strumento principe per scandire il tempo in un particolare ambito, ossia quello musicale. Apprezzato da grandi compositori, avversato da altri, è divenuto, in anni più recenti, un vero e proprio “strumento musicale”: ci riferiamo al metronomo. La misura del tempo musicale ci permetterà, infine, di svolgere alcune riflessioni finali.

Un modello di metronomo di Mälzel

Figura 1. Un modello di metronomo di Mälzel, brevettato nel 1815.
Credits: Myself, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Metronome_M%C3%A4lzel_1.jpg

I primi prototipi. Il cronometro di Loulié e gli studi nel Settecento

Descrivendo gli orologi a pendolo, abbiamo ricordato la legge dell’isocronismo formulata da Galileo Galilei (1564-1642). Quasi un secolo dopo, Étienne Loulié (1654-1702), polistrumentista e teorico della musica, tentò di applicare tale legge ad uno strumento in grado di battere il tempo in ambito musicale. Egli condusse studi di acustica in collaborazione con il fisico e matematico Joseph Sauveur (1653-1716), giungendo a pubblicare i suoi risultati nel 1696 in un’opera dal titolo Éléments ou Principes de Musique. Il prototipo di metronomo da lui costruito (Figura 1), poi denominato cronometro di Loulié, era costituito da un pendolo dotato di un filo a piombo, montato su una colonnina in stile classico provvista di una scala graduata, necessaria a misurare, in pollici, la lunghezza del filo. Dato che quest’ultima era regolabile, si poteva variare la velocità di oscillazione del pendolo. Tuttavia, lo strumento non era dotato di meccanismi per mantenerlo in moto e, inoltre, non emetteva suoni: la persona che ne faceva uso, dunque, doveva tenerlo costantemente in vista.

Il cronometro di Loulié

Figura 2. Il cronometro di Loulié, da lui stesso disegnato nel suo trattato Éléments ou Principes de Musique, 1696.

Loulié e altri suoi contemporanei tentarono comunque, senza successo, di realizzare uno strumento che fosse in grado di “tenere il tempo” anche in brani musicali il cui andamento fosse grave, largo o lento (da 40 a 60 battiti per minuto). Altri esperimenti furono condotti nel corso del Settecento senza giungere, però, ad un risultato.

Ma nello stesso secolo, come sappiamo, fu ideato il meccanismo di scappamento negli orologi a pendolo grazie alle intuizioni di Christiaan Huygens (1629-1695) e alle successive migliorie di George Graham (1673-1751). Tale invenzione fu salutata con favore, in quanto l’inserimento di un tale meccanismo negli strumenti per “tenere il tempo” avrebbe consentito di imprimere impulsi regolari al pendolo, mantenendolo in movimento senza la necessità di dover intervenire manualmente, interferendo con il suo moto.

La nascita del metronomo

L’invenzione del moderno metronomo si deve, in grandissima parte, all’opera di Dietrich Nikolaus Winkel (1777-1826), compiuta sulla base del cronometro di Loulié e degli studi compiuti fino a quel momento. Nel 1814, mentre eseguiva alcuni esperimenti con un pendolo metallico, Winkel scoprì che questo, fissato con un perno al centro e recante due pesi su entrambe le estremità (ossia uno in alto, libero di muoversi, e un altro in basso, fisso), era in grado di battere un tempo costante. Poteva inoltre compiere lente oscillazioni: in tal modo, finalmente, si risolveva l’annosa questione che tanto aveva impegnato Loulié ed altri. Lo strumento di Winkel batteva il tempo producendo un ticchettìo: non si trattava più, dunque, di un dispositivo muto. Winkel donò il suo strumento all’Istituto per le Scienze, la Letteratura e le Arti di Amsterdam. Tuttavia, egli non registrò la sua invenzione. Nel 1816, Johann Nepomuk Mälzel (1772-1838), che in quel periodo stava lavorando ad una versione migliorata di un modello denominato cronometro di Stöckel, ebbe modo di vedere lo strumento. Le intuizioni di Winkel concernenti il doppio pendolo e il peso mobile collocato in alto parvero a Mälzel come risolutive.  Dopo l’aggiunta di alcune migliorie, egli brevettò lo strumento con il nome di metronomo (di Mälzel). Si deve a lui, infatti, l’introduzione della parola metronomo (dal greco μέτρον, “misura”, e νόμος, “legge”). Il metronomo meccanico di Mälzel, dunque, era costituito da un doppio pendolo metallico, dotato di un peso fisso alla sua base per assicurare un’oscillazione isocrona e di un altro al vertice, più piccolo, in grado di scorrere grazie ad un corsoio. Ciò permetteva di regolare, con l’ausilio della scala graduata posta dietro il pendolo, il numero di scatti prodotti dal meccanismo in ogni minuto. Nel corso dei decenni, furono costruite diverse versioni dello strumento: ai nostri giorni, oltre al tradizionale metronomo meccanico, esistono anche modelli elettronici e digitali, a volte integrati in altri dispositivi, come, ad esempio, negli accordatori.

Lodi e condanne. Reazioni allo strumento nell’Ottocento

Anton Schindler (1795-1864), musicista e amico di Ludwig van Beethoven (1770-1827), ci informa che i primi compositori a tessere le lodi del metronomo furono, oltre allo stesso Beethoven, Antonio Salieri (1750-1825) e Joseph Weigl (1766-1846).

Altri musicisti, al contrario, erano convinti che l’utilizzo di uno strumento che misurasse intervalli di tempo uguali fosse deprecabile, in quanto avrebbe reso troppo “meccaniche” persino le esecuzioni di coloro che erano dotati di un grande talento musicale. Si sarebbero perse, infatti, quelle accelerazioni e quei ritardi così espressivi che tanto importano ai fini di un’esecuzione efficace. Questi musicisti temevano che l’imitazione della regolarità matematica del metronomo potesse condurre ad una musica fredda, rigida, uniforme, senza spirito. Per lungo tempo eminenti studiosi discussero sul metronomo e sulle sue implicazioni sull’estetica del tempo musicale. Franz Liszt (1811-1886), Johannes Brahms (1833-1897), Richard Wagner (1813-1883), Camille Saint-Saëns (1835-1921) e altri compositori dubitavano fortemente dell’uso sistematico del metronomo.

L’utilizzo del metronomo nel Novecento

Nel corso del XX secolo, l’utilizzo del metronomo finì per imporsi. Compositori come Igor’ Stravinskij (1882-1971) e Béla Bartók (1881-1945) scrivevano una musica che richiedeva un’estrema precisione ritmica; il direttore d’orchestra Herbert von Karajan (1908-1989), in un’intervista di Richard Osborne nel 1978, rivelò: «Ho allenato la mia mente con i metronomi. E mi metto ancora alla prova. Posso camminare a 120 [MM, ossia battiti per minuto, N.d.A.] e camminare a 105; così, se mi chiedi di cantare a 105, ci riesco. Se sbaglio, lo percepisco con tutto il mio corpo. E, nell’orchestra, se un assolo arriva più lentamente o più velocemente, lo colgo subito. Mi mette a disagio».

In questo secolo, il metronomo non è utilizzato unicamente come ausilio ma, a volte, assurge al rango di strumento musicale tout court. Maurice Ravel (1875-1937), nell’opera L’Heure espagnole (1911), utilizzò tre metronomi a diverse velocità per simulare il ticchettio degli orologi nella bottega dell’orologiaio Torquemada, a Toledo. Nel 1960, il compositore Toshi Ichiyanagi (1933-) compose la sperimentale Musica per metronomi elettrici, per un numero di esecutori tra 3 e 8, ciascuno dotato di un metronomo elettrico con il quale gestire vari suoni e azioni. È datata 1962 la composizione Poema sinfonico per 100 metronomi di György Ligeti (1923-2006), la quale prevede che 100 metronomi siano azionati, in gruppi di 10, da altrettanti musicisti. Il direttore d’orchestra indica agli esecutori di caricare i metronomi, impostandoli ciascuno ad una diversa velocità, e di avviarli in modo sincronizzato. Gli strumenti si fermano, poi, uno dopo l’altro. Ligeti spiegò che il rumore, inizialmente caotico e disomogeneo, dava luogo successivamente «a costellazioni ritmiche che mutavano a poco a poco». Quei metronomi, dunque, creando un addensamento iniziale di suoni, annullano ogni possibile scansione ritmica temporale. L’ordine diviene evidente solo nel finale del brano, quando un ultimo metronomo in movimento batte nel silenzio, per poi fermarsi [2].

Indicazioni metronomiche

I numeri di metronomo, secondo l’uso attuale, presentano la sigla «MM», ossia «Metronomo Mälzel», o (più frequentemente in ambito anglosassone) il sinonimo «bpm», ovvero «beats per minute» (battiti per minuto). Dunque, 60 MM (vale a dire 60 bpm) indicano una frequenza di 60 battiti al minuto, equivalenti ad 1 Hz. Sono stati convenzionalmente stabiliti i seguenti intervalli (con un certo grado di tolleranza). In questa sede ci limitiamo a citare i principali:

Andamento

Tempo (MM o bpm)

Grave

40 - 50

Largo

40 - 50

Lento

50 - 60

Adagio

60 - 72

Maestoso

72 - 84

Andante

80 - 100

Moderato

100 - 120

Allegro

120 - 160

Vivace

144 - 160

Presto

160 - 200

Prestissimo

168 - 208

 

Misurare il tempo (non solo in musica)?

Chiaramente, le nozioni di ritmo e di tempo musicale esistevano ben prima che le tecnologie ad orologeria dotate di ticchettio divenissero disponibili per i musicisti. Il metronomo non ha originato l’idea di tempo musicale, nonostante ne sia divenuto il riferimento predominante nelle attuali pratiche compositive e di esecuzione. Come si è detto, non è sempre stato così. Il dibattito concernente gli effetti dell’utilizzo del metronomo è ancora aperto. Non mancano, a tutt’oggi, studiosi che lamentano come l’impiego di tale strumento imponga un tempo “artificiale”, oggettivo e ripetibile, rivelandosi eccessivamente preciso e dannoso nei contesti creativi.

Nonostante queste visioni contrapposte, ai nostri giorni il metronomo è considerato il miglior dispositivo a cui affidare la misura del tempo musicale. In modo analogo, come si è detto, si rimette all’accuratezza dell’orologio atomico il tempo degli attuali sistemi di comunicazione e, più in generale, il ritmo della vita civile. Come sottolinea il musicologo Alexander Evan Bonus, è stata forse l’era contemporanea, industriale, tecnologica e globalizzata, ad aver richiesto (e imposto) una “misurazione del tempo” che corrispondesse ad esigenze scientifiche, sociali, politiche, economiche, educative e così via.

L’ultima tappa del nostro cammino ci ha dunque permesso di mettere a fuoco un dato di estrema importanza, solo apparentemente scontato: la necessità di misurare il tempo e le stesse modalità con cui ciò è avvenuto non sono altro che la risposta a specifiche esigenze emerse in un dato momento storico e in una determinata società.

Indestructible object, Man Ray

Figura 3. Man Ray, Indestructible Object, 1964.

Credits: https://www.moma.org/collection/works/81209
© 2021 Man Ray Trust / Artists Rights Society (ARS), New York / ADAGP, Paris



Note

1. «Object to Be Destroyed» è un’opera di Man Ray datata 1923, consistente in un metronomo con l’aggiunta di una fotografia rappresentante un occhio (Figura 3); repliche più tarde, realizzate dall’artista, recano il titolo «Indestructible Object».



Bibliografia

Bonus, A. E., Metronome, in Oxford Handbooks Online, Subject: Music, Musicology and Music History, Oxford University Press, 2014, disponibile al link
https://www.oxfordhandbooks.com/view/10.1093/oxfordhb/9780199935321.001.0001/oxfordhb-9780199935321-e-001?print=pdf

Bonus, A. E., The Metronomic Performance Practice: A History of Rhythm, Metronomes, and the Mechanization of Musicality, Ph.D. Thesis, Department of Music, Case Western Reserve University, May 2010, disponibile al link
https://etd.ohiolink.edu/apexprod/rws_etd/send_file/send?accession=case1270221548&disposition=inline

Harding, R. E. M., The metronome and its precursors, Gresham Books, Henley-on-Thames, 1983

Loulié, É., Éléments ou Principes de Musique […], Christophe Ballard, Paris, 1696

Osborne, R., Karajan - A profile and an interview, in «Gramophone», April 1978, disponibile al link
https://www.gramophone.co.uk/features/article/karajan-a-profile-and-an-interview-by-richard-osborne-gramophone-april-1978

Schindler, A. F., Beethoven As I Knew Him, edited by D. W. MacArdle, English translation by C. S. Jolly, Dover Publications, Mineola, 1996