percorso di Marco Capogni
L’opera iniziata da Galileo venne proseguita brillantemente da Newton, il quale però, pur considerando valido il metodo scientifico galileiano, riprese l’idea (già presente nel Timeo di Platone) di uno spazio e tempo assoluti che gli permise di descrivere in modo quantitativo e compiuto il fenomeno e le cause del movimento. Nello scolio dei Principia, Newton avanzò l’ipotesi dell’esistenza di uno spazio inteso come un contenitore immobile, eterno, immutabile e continuo - su cui si svolgono gli eventi naturali - e di un tempo ‘assoluto, vero, matematico’, che scorre in modo uniforme e continuo. Ciò lo condusse a formulare correttamente le tre leggi della dinamica, nelle quali incluse il principio di relatività di Galileo, e a definire la legge di gravità dell’inverso del quadrato della distanza caratterizzata dalla costante universale \(G\) (pari a \(6,67\cdot 10^{-11}~ N m^2/kg^2).\)
Newton arrivò a considerare spazio e tempo un sensorium Dei. La sua idea di uno spazio e di un tempo assoluti, che esistono in sé indipendentemente dai corpi e dalle loro relazioni, dette vita a un’accesa disputa con Gottfried Wilhelm von Leibniz (Lipsia, 1646 – Hannover, 1716), suo contemporaneo, che lo attaccò accusandolo di aver reintrodotto la metafisica nella scienza. Leibniz non solo riprese l’idea di Aristotele di spazio e tempo, ma li considerò realtà dovute a relazioni individuate dal soggetto (“ordine delle coesistenze [lo spazio], come il tempo è un ordine delle successioni”), anticipando in parte in tal modo anche il pensiero di Immanuel Kant (Kӧnigsberg, 1724 – 1804) .
Infatti il problema della natura dello spazio e del tempo fu riaffrontato da Kant in modo sistematico, su un piano prettamente filosofico, con la teoria della conoscenza esplicitata nella Critica della Ragion Pura, mediante cui egli tentò di riconciliare le due diverse posizioni di Newton e Leibniz. Per Kant lo spazio e il tempo giocano il ruolo degli “a priori” della nostra sensibilità [4]. Essi hanno un’esistenza indipendente dalla materia e dal moto (come pensava Newton) ma, pur non essendo entità ideali indipendenti dalla natura e dall’uomo (in accordo con Leibniz), non sono entità prettamente empiriche. Kant li considera “intuizioni pure” della sensibilità e quindi ”forme” della ricettività dei nostri sensi, ovvero strutture mentali innate della modalità con cui il soggetto, ordinando e catalogando i dati empirici, conosce la natura. La natura per Kant si adatta alle strutture innate del soggetto e non viceversa.
Con la sua teoria della conoscenza Kant mise in rilievo un nuovo rapporto tra soggetto e oggetto. Egli riconobbe al soggetto la centralità nel processo conoscitivo ma sempre in relazione all’oggetto, ovvero ai dati sensibili. Creò tuttavia un dualismo insanabile tra il fenomeno (oggetto di esperienza e quindi conoscibile) e il noumeno (non oggetto di esperienza e dunque inconoscibile, ma tuttavia pensabile). Questo dualismo troverà enormi sviluppi futuri in tutto il pensiero filosofico dell’Ottocento ma anche del Novecento, influenzando anche il pensiero scientifico.
Sulla base delle leggi fisiche scoperte da Newton e pubblicate nei Principia in cui egli utilizzò per le dimostrazioni matematiche il metodo geometrico degli antichi greci, Kant asserì che esiste un’unica geometria (quella euclidea) capace di descrivere la struttura dello spazio e che nessuna esperienza empirica può modificare. Da notare che anche la geometria di Euclide (vissuto agli inizi del 3° secolo a.C.) è basata sull’ipotesi implicita di continuità e immutabilità dello spazio fisico propria di tutta la scuola di Platone, di cui egli fu il più giovane dei discepoli.
fig. 3, Spazio e Tempo per Newton | fig. 4, Kant e le "forme a priori" della conoscenza |
L’ipotesi di continuità dello spazio e del tempo, presente nella fisica classica ed ereditata dal pensiero degli antichi filosofi, fu motivo anche dello sviluppo di tutto il calcolo infinitesimale, che vide i suoi albori con Archimede ed ebbe proprio Newton e Leibniz quali padri fondatori del calcolo moderno, su cui tutta la fisica classica fu poi consolidata.
La successiva scoperta dei fenomeni elettromagnetici e la loro interpretazione mediante le leggi di Michael Faraday (Southwark ,1791 – Hampton Court, 1867) e James Clerk Maxwell (Edimburgo, 1831 – Cambridge, 1879) portarono alla definizione operativa di una nuova grandezza fisica: il campo elettromagnetico. Dalle equazioni individuate sembrava che tale nuovo osservabile fisico propagasse i suoi effetti ad una velocità costante \(c\) in un mezzo (l’etere, già presente nella fisica di Aristotele) e che, nell’ambito della nuova teoria delle onde elettromagnetiche di Maxwell, si pensava fosse proprio lo spazio assoluto di Newton.
Anche la teoria di Maxwell del campo elettromagnetico poggia sull’idea di una struttura continua dello spazio e del tempo, propria della fisica di Newton, con l’etere sistema privilegiato per le equazioni di tale campo. La fisica classica, che include anche la teoria dei fenomeni elettromagnetici, rivela pertanto in tutte le sue equazioni, un Universo perfettamente prevedibile nella sua evoluzione una volta che sono assegnate le condizioni iniziali. Ciò costituisce il principio del determinismo, chiaramente esplicitato dall’affermazione di Pierre Simon de Laplace (Beaumont-en-Auge 1749 – Parigi 1827): ”Noi dobbiamo considerare lo stato presente dell'Universo come l'effetto di un dato stato anteriore e come le causa di ciò che sarà in avvenire.”